di Antonello Longo
L’11 gennaio, come oggi, di 74 anni fa, nella sala Borromini (oggi purtroppo non più accessibile al pubblico) del maestoso Palazzo Barberini, gioiello della Roma rinascimentale, si consuma la scissione dei socialdemocratici guidati da Giuseppe Saragat, che fondarono il PSLI (in seguito PSDI) dal PSIUP (poi PSI) di Pietro Nenni.
L’Italia, nell’inverno del ’47, è un cumulo di rovine, la tensione verso la ricostruzione morale e materiale è parossistica, la Costituzione repubblicana è solo una bozza, De Gasperi presiede un governo tripartito (DC, PSIUP, PCI) ancora post-bellico ed è appena stato umiliato e disilluso dalla conferenza di pace di Parigi (cui ha partecipato con Bonomi e con lo stesso Saragat). Il Segretario di Stato americano, Marshall, deve ancora presentare il suo piano di aiuti alle nazioni europee, lo farà ad Harward il 5 giugno del ’47 e solo nel settembre di quell’anno Stalin formerà il COMINFORM. La guerra fredda si delinea ma la NATO nascerà nel ’49 e il Patto di Varsavia solo nel ’55.
Il 2 giugno 1946 l’Italia diventa una Repubblica, il 24 dello stesso mese Saragat viene eletto presidente dell’Assemblea Costituente, incarico che, pur non essendone obbligato né richiesto, lascerà (a Terracini) subito dopo la scissione.
Il nuovo congresso del PSIUP è convocato a Roma dal 9 al 13 gennaio 1947, non tutti gli autonomisti, ridotti attorno al 20% dai contestatissimi congressi provinciali, vi partecipano. La mattina dell’11 Saragat abbandona il congresso e, nel pomeriggio, raggiunge palazzo Barberini, dove già sono i “giovani turchi” e i dirigenti dell’FGS con in testa Leo Solari. (Ri)nasce il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.
A Palazzo Barberini non è nata la socialdemocrazia italiana, la cui storia ripercorre la continuità dell’anima riformista del socialismo italiano e la cui origine è da ricercare nelle dispute di fine ottocento, riflesso della Seconda Internazionale, intorno all’ampiezza delle basi del movimento operaio e della sua coscienza di classe. Lo stesso Saragat era l’animatore di una cultura riformista che, all’interno del movimento socialista di matrice marxista, si contrappone non alla visione rivoluzionaria ma a quella totalitaria del socialismo.
I socialdemocratici tuttavia fanno risalire alla scissione di Palazzo Barberinil’inizio di una loro peculiare presenza ed esperienza politica nell’Italia repubblicana, che non merita di essere ignorata né liquidata con superficialità, perché contiene in sé tutto il bagaglio storico, politico e morale di quella cultura, interpretata prima del fascismo e nell’esilio da padri fondatori come Filippo Turati, Claudio Treves, Giacomo Matteotti, Giuseppe Emanuele Modigliani, Camillo Prampolini, Alberto Simonini, Bruno Buozzi.
Il nuovo partito nato a Palazzo Barberini dall’ennesima scissione, a partire dal nome, PSLI, e dal simbolo, affermò la continuità con la storia del riformismo socialista italiano. Ma il giovane Giuseppe Saragat era andato oltre, nei suoi scritti dell’esilio, l’impostazione riformista della generazione turatiana, cercando un più lucido ancoraggio di sistema alle teorie marxiste, di cui una “critica illuminata” poteva eliminare le interpretazioni “più rozze”, e innovandole, sublimandole direi, alla luce della stessa logica dialettica hegeliana che le ispirò.
La rilettura “illuminata” di Marx, l’umanismo marxista, la rivoluzione democratica, il valore della libertà, l’alleanza tra operai e ceto medio in una nuova unità di classe, maturati dagli insegnamenti dei grandi socialisti europei, da Engels a Turati, da Jaurès a Leon Blum, da Kautsky a Otto Bauer, rimangono immanenti nel Saragat di Palazzo Barberini, sono anzi il corpo e la sostanza ideale su cui innestare il programma politico della rinnovata socialdemocrazia italiana.
Oggi tutto è cambiato
Nessuno degli elementi che caratterizzavano nel secondo dopoguerra lo scenario internazionale e la condizione sociopolitica dell’Italia sopravvive nel mondo di oggi. Sarebbe, dunque, vano cercare nell’evento scissionista del gennaio 1947 spunti di attualità politica.
Vale la pena, invece, di approfondire il profilo storico e sottolineare il valore ancora vivido della scelta ideale di Giuseppe Saragat, che assunse un rilievo maggiore dell’effettivo spazio occupato negli avvenimenti successivi e rispetto al non determinante 7% di voti conseguito il 18 aprile 1948 (livello di consenso, in ogni caso, mai più raggiunto dai socialdemocratici italiani nelle elezioni politiche nazionali).
I protagonisti della scissione, in quel particolare momento storico, gettarono sul piatto delle idee una visione politico/ideologica, quella saragattiana, che avrebbe potuto dare a tutta la sinistra italiana una fisionomia più moderna e una diversa consistenza se non fosse stata poi tradita da una troppo lunga e scialba pratica quotidiana dei piccoli spazi di potere gestiti in subordine alla DC. D’altro canto non si può ignorare che la visione socialdemocratica fu sempre osteggiata e trattata con sufficienza dal conformismo culturale di matrice comunista e di retaggio cattolico controriformista che, fin da allora, fu influente nel mediare il rapporto tra politica e pubblica opinione.
Sulle origini, la necessità e le conseguenze dell’azione scissionista di Saragat si è molto discusso e le idee, com’è naturale, sono rimaste profondamente divergenti. Oggi però, dopo le dure repliche della storia, è difficile trovare un intellettuale “di sinistra” capace di negare le ragioni di Saragat e dei suoi compagni di avventura circa la condanna, la “barriera politica e morale”, come diceva lo statista piemontese, rispetto al comunismo stalinista. Ma, ecco il paradosso, il riconoscimento di queste stesse ragioni viene usato per giustificare la fuoriuscita dalla sinistra storica piuttosto che per ricucire lo strappo con lo sviluppo del movimento socialista nell’Europa libera della seconda metà del novecento, provocato dalla presenza del più grosso partito comunista dell’occidente e dalla particolare posizione dell’Italia nello scacchiere geopolitico della guerra fredda.
Un nuovo tempo, molto amaro
Se al giorno d’oggi viviamo un tempo amaro è perché, mentre sono state archiviate come ferro vecchio tutte le componenti della sinistra storica l’area progressista si assesta attorno a un riformismo debole, non sorretto da un progetto credibile e riconoscibile di società più libera e più giusta. Il risultato è che molti strati, anche fra i più fertili e vivaci, del ceto medio e della borghesia vengono lasciati nelle mani della cultura e della politica di centro-destra. Una condizione che rende la sinistra politica perdente sul piano elettorale come su quello culturale e che ripropone in forma nuova il problema (che fu della prima repubblica) di non sottrarre la forza di milioni di voti popolari ad un reale processo di trasformazione democratica dello stato, delle autonomie, dell’economia, della società.
Il riformismo di cui si parla oggi non è quello del socialismo democratico, che è stato e rimane sconosciuto nel nostro Paese, con pochissime eccezioni. Prima di scrivere questa nota ho voluto rileggere le parole pronunciate dallo storico socialista Gaetano Arfè nel 2001, in occasione dell’anniversario della scissione di Palazzo Barberini,
Arfé sostenne che “La riscoperta e la rivalutazione del ricchissimo e ancora vitale patrimonio di esperienze etiche, dottrinali e politiche del filone centrale del socialismo italiano, passato alla storia come riformista, diventa perciò il problema politico principale della sinistra italiana d’oggi. E qui mi pare opportuna un’avvertenza. Il termine riformista è oggi talmente logorato dall’uso, dall’abuso e dal cattivo uso che ha perso ogni significato. Turati stesso quando la parola entrò nel gergo politico corrente tentò di respingerla: per lui esistevano due socialismi soli, quello di chi sapeva e quello di chi ignorava che cosa la parola socialismo significasse.
Riformista si proclama oggi ogni modesta e molesta compagnia di ventura messa insieme per partecipare alla lotteria delle elezioni. Riformista si proclama il residuato maggioritario, sfiduciato e sfiancato, di quello che fu il partito comunista, disposto a dichiarare, ignorando peraltro la dialetticità della storia, che il comunismo è incompatibile con la libertà, ma non a riconoscere che la causa della libertà, della giustizia, della pace dal lontano 1892 ha camminato al passo del partito socialista”.
“L‘operazione (a suo tempo tentata da Veltroni, ndr) rivolta a collegarsi idealmente” disse Arfè, soltanto al Carlo Rosselli di Giustizia e Libertà,“isolandone la figura, pur di ignorare Turati e Matteotti, Treves e Modigliani, Saragat e Nenni, è storiograficamente infondata, culturalmente sterile, politicamente inutile”.
Mi faccio aiutare, ancora, dalle parole di Arfè:
“Il partito che nasce a palazzo Barberini non è nelle intenzioni dei suoi costruttori un partito di socialismo moderato, è un partito classista che si dà come obiettivo ultimo la socializzazione dei mezzi di produzione di scambio, che non esclude nelle dichiarazioni di suoi autorevoli esponenti, anzi auspica, che una volta affermata, organizzata e consolidata l’autonomia dei socialisti, una politica unitaria del movimento operaio possa essere ripresa.
Il marxismo, liberamente interpretato, cultura e non dogma, è la sua dottrina, in esso è il fondamento teorico della sua autonomia ideale e programmatica. E’ un dato, anche questo, che mette conto di sottolineare in una Italia dove il marxismo sembra essere diventato una diabolica eresia da estirpare con metodi da Santa Inquisizione.
Marxista è Giuseppe Saragat, continuatore critico e più volte eretico della tradizione riformista.
…Dell’anticomunismo, anche nei momenti di più aspra polemica, non fece mai una ideologia. La lotta aperta e intransigente, condotta con le armi della politica, contro il partito comunista si accompagnò all’apprezzamento delle doti di intelligenza e di coraggio dei suoi dirigenti e al riconoscimento del contributo che essi avevano dato alle battaglie della Resistenza e alla costruzione della democrazia repubblicana”.
Socialdemocrazia, dunque, partito ideologico, non agnostico né moderato. Le considerazioni che oggi facciamo sulla scissione di palazzo Barberini risentono fatalmente della consapevolezza degli sviluppi successivi della “operazione politica” allora concepita. Ma un fatto storico va esaminato in relazione al momento in cui si svolge.
Un problema morale
Quando Saragat entra nella sala Borromini senza sapere, non può esserne certo, che il fronte popolare uscirà sconfitto dalle urne e, pur essendo sicuro della “tattica liquidatrice” del PCI, forse non immagina quanto grande risulterà l’umiliazione di Nenni e dei massimalisti nelle liste con l’effigie di Garibaldi. Aveva lasciato nel marzo del ’46 moglie e figli, e il comodo posto di ambasciatore, a Parigi, spinto in tal senso dalle pressioni dei “giovani turchi” (Iniziativa Socialista) e di Faravelli (Critica Sociale) per risolvere un “caso di coscienza” e affrontare “il problema morale dell’autonomia del socialismo”. Davanti al XXIV Congresso del PSIUP, il 13 aprile, egli aveva pronunciato (tra gli applausi della platea) un discorso che, prima e più di quello di palazzo Barberini, fu il vero manifesto ideologico della socialdemocrazia del dopoguerra, scolpendo, contro le tesi fusioniste, le ragioni teoriche dell’opposizione al comunismo: la necessità di una profonda revisione del marxismo e il rifiuto del leninismo.
L’esule, il teorico marxista che aveva speso buona parte della vita a ricucire i rapporti tra le componenti socialiste e tra queste e il partito comunista per affrontare insieme la lotta contro il fascismo, ha 48 anni quando entra a palazzo Barberini per consumare la “sua” scissione. Già sente nell’aria il rombo della denigrazione e della calunnia da sinistra, l’implacabile, sprezzante (falsa) accusa di un’azione finanziata dal governo americano, ideata e diretta dalla destra e dai grandi capitali, ed avverte su di sé un peso maggiore di quello che poi realmente sarà assegnato dalla storia alla sua scelta, vissuta al lume di una ineludibile responsabilità “di coscienza”: “non c’erano che due soluzioni: o rinunciare a battersi per l’idea che ci è cara, oppure fare quello che abbiamo fatto”, cioè un’azione di rottura dell’unità socialista che sarebbe stata accusata di voler colpire l’unità della classe operaia e favorire la reazione. Ma l’amico d’infanzia di Piero Gobetti coltiva la religione del dovere e “il nostro dovere è continuare l’opera di proselitismo, iniziata or sono cinquant’anni dai nostri grandi Maestri”.
Con la mentalità di oggi è difficile crederlo ma Saragat, come Nenni del resto, agiva solo per ragioni ideali. Dietro la scissione non c’erano calcoli tattici né ambizione personale. I famosi finanziamenti americani, procurati da Faravelli, non hanno niente di misterioso, tanto che il ricercatore catanese Alessandro De Felice ne ha ricostruito l’intero ammontare servendosi di documenti originali: i sindacati italo-americani di Luigi Antonini e Vanni Montana fecero pervenire (prima alle correnti di Iniziativa Socialista e Critica Sociale, poi al nuovo partito ma per un tempo limitato) contributi di entità non straordinaria anche se vitali per una struttura politica che doveva essere inventata dal nulla.
Saragat non aveva in mente un piccolo partito, tutt’altro. Sperava di trovare un seguito significativo nell’ambito del ceto medio, da cui non desiderava essere schiacciato ma che pensava di sottrarre al richiamo della DC. E soprattutto credeva di poter agire sui rapporti di forza col partito comunista fra gli operai, prospettando loro una diversa, più civile, più umana concezione della lotta di classe. “La storia della scissione di palazzo Barberini – dice Arfè – è la storia di un tentativo, audace, storicamente fallito e tornato politicamente attuale, di comporre in dialettica unità, nel comune segno della indipendenza dal gioco delle politiche di potenza, le forze del movimento operaio socialista, per farne, in un quadro di solidarietà europea, la forza dirigente del processo di ricostruzione di un paese uscito dalla più grande catastrofe della sua storia.”
La storia successiva alla scissione di Palazzo barberini non terrà fede alle premesse por motivi di rilievo storico e per ragioni politiche anche di basso profilo. Il PSLI, poi PSDI non sfonderà mai alle elezioni politiche, buona parte della classe dirigente che aveva seguito la scissione si perderà per strada a causa delle gravi divisioni sulla politica estera tra i teorici del terzaforzismo e i fautori dell’Alleanza Atlantica ed anche della diversa concezione dei rapporti con la piccola borghesia. Saragat diventerà (pur senza gestire mai grande potere) una delle maggiori personalità di governo del centrismo (epoca che gli storici cominciano a rivalutare, poiché coincise con la ricostruzione dell’Italia, con la sua provvida scelta occidentale, con il suo miracolo economico) lasciando l’originaria ispirazione marxista quasi come un “porto sepolto” della sua anima ombrosa e solitaria ma sostanzialmente estranea in corpore vili al PSDI. Egli affermerà sempre di più, fino alla presidenza della Repubblica, la sua natura di uomo di stato senza mai tenere in conto gli interessi del partito che aveva fatto nascere. Le sue vere preoccupazioni furono quelle di riannodare i fili dell’unità socialista (che rinascerà e morirà durante il suo soggiorno al Quirinale, lasciando vieppiù impoverito e defedato il gruppo dirigente socialdemocratico) e preparare (con successo) la strada al centro-sinistra.
Il resto è la cronaca della nostra generazione.