di Antonino Gulisano
Quotidianamente si aggiorna la tragica contabilità dei morti da Covid, ma c’è un conteggio che riguarda un altro tipo di mortalità e si va aggiornando con altrettanta drammaticità, quello del lavoro, delle aziende che chiudono e che non riapriranno. Nelle scorse settimane l’ufficio studi di Confcommercio ha diffuso il dat che 390.000 imprese italiane hanno chiuso nel 2020. Un’ecatombe. E, di queste chiusure, 240.000 dovute esclusivamente alla pandemia. L’emergenza sanitaria – con tutte le conseguenze che ne sono derivate, restrizioni e chiusure obbligatorie incluse – ha acuito drasticamente il tasso di mortalità delle imprese.
Mentre si resta appesi alle variazioni cromatiche tra giallo, rosso e arancione per cercare di fronteggiare l’emergenza sanitaria, con risultati in questi ultimi mesi non proprio incoraggianti, il dramma dell’economia prosegue e un vaccino in questo caso non si è ancora trovato. Si tampona con i così detti ristori o bonus e con la cassa integrazione, finché dura, ma ogni mese che passa per molte imprese cercare di sopravvivere aspettando che le nubi si diradino si fa sempre più complesso e le riserve a cui attingere si assottigliano.
Si fa presto a dire ripresa
Il 2021 doveva essere l’anno dell’uscita dal tunnel. L’andamento della pandemia e le sue nuove ondate stanno allontanando però la luce in fondo al tunnel. E le prospettive in questo senso sono più grame al Sud che al Nord. Per il 2021 e 2022 la ripresa del Mezzogiorno si prospetta sensibilmente più debole (rispettivamente +1,2% e +1,4%) rispetto al Centro-Nord (+4,5% e +5,3%). Così il Check-up Mezzogiorno sulla congiuntura del 2020, elaborato da Confindustria e SRM (Centro Studi collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo) uscito nei giorni scorsi. La Regione Siciliana, con un pizzico di ottimismo in più, ha previsto nel Defr per il 2021 una crescita del 7,6, del 4,7 per il 2022 e del 3,3 per il 2023. Ma la ricchezza bruciata in questi mesi ha riportato indietro la Sicilia di tre decadi.
In Sicilia si sono già polverizzate decine di migliaia di posti di lavoro. Tra i contratti a termine non rinnovati e i dipendenti delle aziende che hanno chiuso i battenti, l’ecatombe è già cominciata, colpendo maggiormente, ha illustrato il rapporto del Diste, le donne lavoratrici. E quando cesserà il blocco dei licenziamenti l’ondata potrebbe travolgere tutto. Facendo affogare un territorio che era già povero e arretrato prima della pandemia. Impossibile con queste premesse arginare il fenomeno dell’emigrazione che è già in atto da anni e che sta lentamente svuotando l’Isola deprivandola del futuro.
Due Paesi, due ricette
Sarebbe quanto mai scellerato pensare di affrontare questa emergenza senza precedenti dimenticando che l’Italia, dal punto di vista economico, perché è di economia che stiamo parlando, non è un Paese ma sono due. Perdere di vista la differenza abissale tra il Mezzogiorno e il resto della nazione nel progettare interventi anticiclici che aiutino gli italiani finiti in ginocchio a rimettersi in piedi sarebbe non solo cieco ma disonesto. Qualche giornale meridionale ha definito l’eventualità “la rapina del secolo”.
Chiarezza sui numeri
Ieri si è appreso che la quota della parte investimenti per il Sud, trasversale a tutte le missioni e i progetti previsto dal Piano Recovery del governo italiano, ammonta al 50 per cento. Sarebbe più che giusto per cercare di accorciare lo spaventoso gap infrastrutturale tra le due Italie. Ma sui numeri va fatta assolutamente chiarezza. L’esecutivo – affermano, per aumentare le quote di risorse assegnate al Sud accorpa anche i fondi di coesione, soldi comunitari già stanziati – attraverso i piani operativi nazionali (PON) e i piani operativi regionali (POR) – per Sicilia, Calabria, Sardegna, Molise, Abruzzo, Basilicata, Campania e Puglia”. Insomma, si teme che sul Sud si giochi alle tre carte: “Secondo il piano di Palazzo Chigi al Mezzogiorno andranno circa 4,5 miliardi per strade, autostrade, ponti, ferrovie; alle Regioni settentrionali la cifra di 74 miliardi di euro”.
Il tempo stringe
I tempi sono stretti. Il Recovery fund e next generation e Mes sono due ipotesi messe in campo dalla U.E. Ma si ha l’impressione che il Governo italiano e la sua maggioranza stia sprecando l’occasione dello sviluppo del Paese. Non si ha capacità di programmazione, di progettazione strutturale né di “governance” delle risorse finanziarie messe in campo.
Bisognerà capire meglio cosa e quanto spetterà davvero al Sud. E soprattutto vigilare su tempi e modi dell’attuazione degli interventi. I governatori delle regioni meridionali, a prescindere dai colori politici, hanno dimostrato di vigilare con una serie di uscite pubbliche sul tema in queste settimane. Il messaggio pare arrivato.
Il tempo intanto scorre. E la devastazione dell’economia meridionale fondata sul terziario – e quindi più esposta ai danni duraturi della pandemia – continua, insieme alla sinistra contabilità di morte delle attività economiche, che scorre parallela a quella tragica delle persone uccise dal virus.