di redazione
La sera del 5 gennaio 1984 veniva assassinato dalla mafia, a Catania, Giuseppe Fava, giornalista e scrittore siciliano, direttore del mensile “I Siciliani”.
Giuseppe, “Pippo” Fava aveva appena lasciato la redazione del suo giornale, alle 21, 30 aveva fermato la sua vecchia Renault 5 davanti al Teatro Verga per prendere la nipotina che recitava una piccola parte nel “Pensaci Giacomino!” di Pirandello, in scena in quei giorni. Ma i killer non gli diedero il tempo di scendere dall’automobile, cinque proiettili calibro 7,65 sparati alla nuca, a bruciapelo, spensero, la vita, la voce, gli ideali di un Uomo libero, amante appassionato della vita e della verità.
La lunga vicenda giudiziaria sull’omicidio si è conclusa definitivamente soltanto nel 2003, con il giudicato della Cassazione sulla colpevolezza del boss della mafia catanese, Nitto Santapaola e dei sicari che spararono i colpi mortali.
Ma, al di là della verità processuale, per comprendere in quale contesto vanno ricercati i veri mandanti dell’assassinio è necessario conoscere l’opera di Giuseppe Fava e considerare il contesto sociale, economico, politico, l’intreccio di complicità, la trama di reciproca mutualità tra gli ambienti imprenditoriali, politici e dell’informazione e l’organizzazione mafiosa nella Catania degli anni Ottanta del Novecento, dove un ruolo di preminenza assoluta era svolto dai grandi gruppi imprenditoriali al cui comando stavano quelli che Pippo Fava aveva definito “i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa” ((Rendo, Costanzo, Graci e Finocchiaro i loro nomi).
Giuseppe Fava era nato a Palazzolo Acreide (Siracusa) il 15 settembre 1925.Laureato in giurisprudenza nel 1947, giornalista professionista dal 1952, redattore e inviato speciale per “Tempo illustrato” e “La domenica del Corriere”, corrispondente di “Tuttosport”, collaborò con “La Sicilia” di Catania e, dal 1956 al 1980, fu capocronista del quotidiano “Espresso sera”. Drammaturgo, romanziere, autore di libri-inchiesta; arrivò al grande successo con il romanzo Gente di rispetto del 1975e con Prima che vi uccidano del 1977. Del 1983 è il suo capolavoro drammaturgico, L’ultima violenza.
A cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta assunse la direzione del quotidiano catanese “Giornale del Sud”, due anni di impegno e di testimonianza contro la mafia, di battaglie civili e pacifiste.
Nel gennaio del 1983 fu pubblicato il primo numero de “I Siciliani” che Fava, uscito dal Giornale del Sud, aveva fondato con un gruppo di giovani ed entusiasti redattori, dando vita ad un’esperienza significativa per il movimento antimafia non solo a Catania e non solo in Sicilia, che divenne punto di riferimento fondamentale per la lotta alla mafia, e tale è rimasto anche adesso.
A trentasette anni dalla sua ucciosione, il modo migliore per ricordare Pippo Fava ci sembra quello di riportare alcuni passi di un suo indimenticabile articolo, apparso per la prima volta nella rivista “I Siciliani”, n. 1, nel gennaio 1983. È il famoso ed esemplare pezzo giornalistico, che purtroppo poco o nulla ha perduto della sua attualità, intitolato I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, un documento storico che ne testimonia tutta la passione, il coraggio di lottare, la fede nella forza rivoluzionaria della verità. Parole che, probabilmente, contribuirono a determinarne la condanna a morte.
“Negli anni ottanta le prede della mafia si dividono in due categorie perfettamente separate che trovano punti di contatto soltanto in alcune fatali complicità organizzative. L’una categoria raggruppa tutte le tradizionali vocazioni criminali volte al taglieggiamento dell’economia, i cosiddetti “racket”, che controllano quasi tutte le attivita’ economiche di una grande citta’: i mercati generali; le concessionarie di prodotti industriali, auto, elettrodomestici, televisori; negozi, teatri, alberghi, night; e su ogni attivita’ impongono una taglia, una specie di tassa che l’operatore economico e’ costretto a pagare se non vuole correre il rischio di vede bruciare la propria azienda, o vedersi sciancato da alcune revolverate. In taluni casi d’essere ucciso. Si tratta di un giro di centinaia o migliaia di miliardi, pero’ frantumati e dispersi in un’infinita’ di rivoli e canali. È la mafia cosiddetta dei manovali, senza vertici, continuamente sconvolta da una battaglia interna per il predominio in un quartiere o un settore.
È una malia che sembra animata da una tragica vocazione al suicidio e tuttavia continuamente si rinnova, una specie di fetida tenia oramai intanato nel ventre della nazione, dove si ingrassa, ininterrottamente divora se stesso e ricresce”.
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“Le nuove grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto della mafia una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono essenzialmente due: il denaro pubblico e la droga”.
“Il quesito è duro e drammatico: i quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in quel massimo e misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda si possono dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che appare, quello che la gente pensa, e quello che probabilmente è vero.
Quello che appare è ciò che abbiamo descritto, cioè di quattro potenti di colpo sospinti nel cuore di una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e giudiziariamente per possibili e gravi delitti. Solo il magistrato potrà dire una verità che può essere tutto e il contrario di tutto.
Quello che la gente pensa è più brutale, e cioè che i cavalieri di Catania, o taluno di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro a impartire l’ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale oso’ chiedere allo stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi economici.
Ma quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi giornali, con perigliose acrobazie di linguaggio hanno dovuto riferire) non può avere alcun valore giuridico e nemmeno morale, poiché può nascere da pensieri spesso mediocri, rancori sociali, invidie umane. Non ci sono prove e quindi fino ad oggi non esiste!
Infine quello che probabilmente è: cioè di quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarietà, saggezza, intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del nostro tempo e della classe politica che la governa, ed essere più rapidi e decisi nel trarne i vantaggi. Enrico Mattei era maestro in questa arte. Anche Agnelli deve essere piu’ rapido e deciso dei concorrenti. Il rapporto con la mafia e’ stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti delle opere pubbliche. Questo e’ affar nostro. Voi volete gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e trasporto! Che sia! Pero’ non vogliamo bombe nei nostri cantieri, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, parenti, fratelli, amici, possano essere rapiti o sequestrati. Se cosi’ e’, tutto questo non e’ morale, ma non e’ nemmeno reato! E purtroppo non e’ nemmeno una vera risposta in un momento storico terribile in cui la tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di verita’ definitive, anche se agghiaccianti.
Esiste infatti una realtà innegabile: perché la mafia possa amministrare le sue migliaia di miliardi, debbono pur esserci imprese private ed istituti pubblici, uomini d’affari o di politica capaci di garantire l’impiego e la purificazione di quell’ininterrotto fiume di denaro”.
“In basso la sterminata folla di manovali che si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite cose dalle quali può nascere ricchezza: i mercati, le concessioni, i subappalti, le estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta e insanguina quasi tutte le funzioni della societàsottomettendo le province, le città, i quartieri. Più in alto, molto più in alto, i due livelli paralleli, i grandi, insospettabili finanzieri e operatori che gestiscono migliaia di miliardi della droga; le banche che ricevono, nascondono e riciclano quella massa infame e infinita di denaro; le grandi holding siciliane, romane, milanesi, che assorbono quel denaro e lo trasformano in ammirabili operazioni pubbliche e private.
Manca l’ultimo livello, il più alto di tutti, senza il quale gli altri non avrebbero possibilità di esistere. Il potere politico”!
“Il presidente della regione Pier Santi Mattarella, anche lui democristiano onesto, venne ucciso perché aveva deciso di spendere onestamente i mille miliardi della legge speciale per il risanamento di Palermo. Quasi certamente fra coloro che assistettero commossi ai funerali, espressero sincere condoglianze, e baciarono la mano alla vedova, c’erano i suoi assassini. Probabilmente gli stessi che avevano seguito dolorosamente i funerali del vice questore Boris Giuliano, del giudice istruttore Cesare Terranova, del procuratore della repubblica Gaetano Costa, del segretario comunista Pio La Torre. Tutti e quattro assassinati poiché stavano già scoprendo i punti di sutura fra politica e mafia”.
Un anno esatto dopo la pubblicazione di quest’articolo, Pippo Fava veniva assassinato dalla mafia a Catania.