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Stasera in TV. 27 dicembre Alberto Sordi, i mille volti dell’italiano

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A concludere l’anno del centenario della nascita, stasera su La7 alle 22,45 il documentario di Fabrizio Corallo “Siamo tutti Alberto Sordi”  (2020), che ne ricostruisce la strepitosa carriera cinematografica attraverso un consistente numero di materiali di repertorio.

di Franco La Magna

Nato il 15 giugno del 1920 (alle 7,25 minuti in via S. Cosimato, 17) all’ombra della satira disincantata e al vetriolo di Trilussa, nel cuore di una Roma universale, cinica e crapulona, il “trasteverino” Alberto Sordi – secondo solo a Totò in un’ipotetica classifica dei fenomeni divistici cinematografici italiani del XX secolo – rivela fin da bambino un’innata e prepotente passione recitativa. Di lui Ennio Flaiano ha scritto d’essere la nostra vera cartina di tornasole, l’autobiografia nazionale, assegnandogli una caratterialità universale in un’Italia che lentamente si ricostruiva, dopo gli anni bui del fascismo e del secondo conflitto mondiale, poi del boom economico, degli anni di piombo postsessantottini, fino all’ingresso nel terzo millennio. In piena age d’or fascista si esibisce già in teatro ad appena dieci anni, poi giovanissimo entra nella compagnia di Ermete Zacconi, di Aldo Fabrizi, di Guido Fineschi e nel 1938 in quella Riccioli-Primavera a cui molto deve per la sua affermazione.

Diventa così macchietta d’avanspettacolo, attore di rivista, poi doppiatore (sua la voce di “Ollio” e di altri divi hollywoodiani, dopo aver vinto un concorso bandito dalla Metro Goldwyn Mayer), è comparsa, ballerino, musicista per “eredità paterna” (il padre, come è noto, era professore di musica).  

Lavora in teatro fino al 1947, ma ancora nel 1952 partecipa a “Gran baraonda” di Garinei e Giovannini nella compagnia di Wanda Osiris, dove si esibiva anche il Quartetto Cetra che cantava “Non ti fidar di un bacio a mezzanotte” e dove s’innamorò di una delle ballerine, nonostante avesse già una relazione con l’attrice Andreina Pagnani (una delle grandi doppiatrici del cinema italiano) che, in qualità di amica, lo aveva raccomandato alla Osiris.

Negli anni ’40 inventa per la radio alcuni celeberrimi personaggi (Mario Pio, il compagnuccio della parrocchietta, il conte Claro, il Signor Dice) che in parte trasferisce senza fortuna sullo schermo nel film “Mamma mia che impressione”! (1951) di Roberto Savarese, scritto con De Sica e Zavattini, poco prima di consegnarsi allo strepitoso e crescente successo consacrato da un pubblico ammaliato e divertito che, prodigo di consensi dopo una fase di sussiegosa indifferenza, confligge senza clamori con una critica spesso tiepida, indifferente o troppo “ideologizzata” che per molti anni stenta a valutarne l’eccezionale portata artistica.​​​​​​​​​

Dopo l’insuccesso de “Lo sceicco bianco” (1952), viene caparbiamente e coraggiosamente incluso a forza nel cast de “I Vitelloni” (1953) da un Federico Fellini già onirico e barocco, costretto ad eliminare il suo nome dai manifesti, poi precipitosamente ristampati nella seconda tiratura con il suo nome in bella mostra, visto il favorevole riscontro del film al box-office. E con il personaggio scioperato, burlone, mammone, neghittoso e infantile di Alberto de “I Vitelloni” (seguito l’anno dopo da quello fortunatissimo di Nando Moriconi di “Un americano a Roma”, per cui conquista il titolo di “Governatore onorario” di Kansas City) s’invola nell’empireo del divismo nostrano e, almeno per tutti gli anni ’50 , lui – che più di ogni altro comincia a cesellare una sterminata galleria di personaggi – paradossalmente s’imbriglia (o meglio viene imbrigliato) nel cliché dell’uomo vile, qualunquista, indolente, scansafatiche, profittatore, arrivista, canaglia, gaglioffo e puttaniere, che diventa la sua cartina di tornasole e portati sul grande schermo in quasi 200 film!

Giganteggia tra radio, rivista, cinema e poi televisione, ma una critica miope, normativa, epidittica, deliberativa o pedagogica, lo snobba, non lo ama, sicché lo tipicizza imbozzolandolo e immiserendolo in un ipotetico paradigma, in una recitazione monocorde (per via di alcuni lazzi che lui assume come necessari tratti distintivi, adorati da un pubblico osannante), a scorno però del susseguirsi di memorabili interpretazioni, scritte da uno sceneggiatore geniale e talentuoso come Rodolfo Sonego, suo scrittore fetish per tutta la vita, che disegnano, la maschera impenitente, comico-grottesca, drammatica, penosa, servile dell’italiano medio, colto tra dopoguerra, boom economico e benessere, quella dell’arte di arrangiarsi, d’una frustrante e misera mediocrità in apparenza rifiutata dallo spettatore cinematografico, ma segretamente accettata perché – ahimé – talmente vera (fatte salve le necessarie concessioni plateali) da risultare più vera della finzione.

Del suo ritratto impietoso dell’italiano si potrebbe dire quel che il grande drammaturgo Jean Jenet scriveva a proposito de “Le serve”, uno dei testi più sconvolgenti del teatro novecentesco: “Le Serve sono dei mostri proprio come noi quando fingiamo con noi stessi e sogniamo d’essere questa o quell’altra cosa. Esse ci permettono, rispecchiandoci in loro, di vederci come non sapremmo o non oseremmo vederci o immaginarci e tuttavia quali sappiamo di essere!”.

Circa due sono le decine di film da lui firmati – tra cui l’indimenticabile esordio “Fumo di Londra”(1966), David di Donatello. Maschera “eterna” della commedia all’italiana icona nazionale, “Albertone” resta il solo – tra i cinque colonnelli della risata del cinema italiano (Gassman, Manfredi, Tognazzi, Vitti) – ad aver conquistato sul campo i galloni di generale, perché – come lui stesso diceva – “Quanno se scherza bisogna esse seri”.  

Alberto Sordi muore a Roma, colpito da tumore, il 24 febbraio del 2003.


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