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“IL CAMMINO DELLA SPERANZA” di Pietro Germi

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 di Franco La Magna *

Merita alcune riflessioni “Il cammino della Speranza” (1950), un film di Pietro Germi di settant’anni fa, sullo storico e ancor oggi irrisolto problema dell’emigrazione siciliana.

Dopo il successo de “In nome della legge” (1949) Pietro Germi, regista a “vocazione meridionale” ripiomba sulle desolate lande siciliane per girare il road-movie straccione “Il cammino della speranza” (1950, altro titolo “Terroni”), che riprende il mito della frontiera del genere western e affronta con coraggio un problema sociale fino ad allora quasi del tutto sottaciuto. Tratto dal romanzo “Cuori negli abissi” del siciliano Nino Di Maria (Sommatino, Caltanissetta 1904-1997), il film tampina la triste odissea di un gruppo di isolani che, fuggiti dalla realtà di fame del proprio paese, dopo omeriche avventure raggiungono la Francia vista come terra promessa. Bloccati alla frontiera riusciranno a passare con la complicità del capo pattuglia, impietositosi di fronte a quel gruppo di derelitti.  Palesi i limiti dell’ideologia neorealista che con un “populismo solidaristico e lamentatorio” (Ferrero) rigetta sullo sfondo della narrazione il dramma dell’emigrazione ed evita con la stessa scelta della nazione straniera le problematiche razziali serpeggianti all’interno della penisola, unico paese europeo che abbia sviluppato e alimentato un razzismo interno.

Drastico sul film il giudizio di Leonardo Sciascia secondo cui “…non è in effetti la guardia di frontiera che lascia passare in Francia gli zolfatari di Capodarso: è lo stesso Stato, è Italia che si prepara al cosiddetto miracolo economico, che chiude gli occhi mentre le sue masse disoccupate fluiscono nelle campagne francesi, nelle miniere del Belgio, della Germania (il cammino della speranza finiva anche a Marcinelle)”, la spaventosa tragedia della miniera belga dove nel 1956 morirono 136 minatori italiani. Un fenomeno non molto dissimile dall’immigrazione odierna da quel che accade oggi dai paesi del terzo mondo verso l’Italia. E senza scordare che, in realtà, anche quella dei nostri giovani, soprattutto meridionali, non è mai finita.

Germi dilata in realtà l’ultima e più avventurosa sezione del romanzo di Di Maria, chiamato a collaborare alla sceneggiatura con Fellini e Pinelli, laddove nel romanzo il nucleo centrale è costituito dalla descrizione della disumana esistenza dei minatori, imprigionati in una sorta d’inferno dantesco e rinuncia anche a girare il film negli stessi luoghi del romanzo (la miniera di Trabia-Tallarita), preferendo spostare il set nei pressi di Favara, nella miniera Ciavolotta.

Sono gli anni del cosiddetto “Cinema di Andreaotti”, il sottosegretario bollato come novello “pronipote di Catone”, firmatario della legge n. 958 del 1949 che per qualche tempo controllerà tutto il cinema nazionale e che entra in vigore proprio l’1 gennaio 1950. Anni in cui impera l’autocensura e i pochi autori che infrangono il tabù di “sciorinare i panni sporchi in casa” vengono sistematicamente e implacabilmente boicottati. E tra questi il ferrigno Germi resta uno dei più perseguitati.

(Per un maggior approfondimento v. il mio “Lo schermo trema. Letteratura siciliana e cinema”, Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, 2010.

 

* critico cinematografico e storico del cinema


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