di Antonello Longo
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Il virus chiamato Covid 19 continua a diffondersi, anche se, per fortuna, da qualche giorno i numeri sembrano lentamente diminuire. Ma il dramma della pandemia ha messo bene in evidenza molte delle criticità del sistema Italia e la pubblica opinione si sta rendendo conto con maggiore chiarezza del costo economico e sociale di anni di politiche socialmente (ma anche economicamente) sbagliate.
Nel campo della sanità tutti i governi che si sono succeduti dal 2010 a questa parte, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte, hanno operato tagli per un totale di 37 miliardi di euro. Ciò ha comportato la soppressione di quasi 70 mila posti letto e decine di migliaia di medici, infermieri e personale ospedaliero in meno. Ed oggi, nel momento dell’emergenza più acuta, provocata dalla pandemia, ci ritroviamo poche macchine per ventilare i pazienti ricoverati, medici e personale senza le giuste attrezzature e protezioni, una rete di sanità territoriale del tutto inadeguata.
A questo bisogna aggiungere che parte molto rilevante della spesa sanitaria, anche quella destinata a fronteggiare l’emergenza, finisce nelle tasche dei privati, nella logica non del servizio pubblico, ma del profitto.
Naturale conseguenza delle scelte fin qui operate è l’espandersi della sanità privata, che non si arresta di certo in tempi di pandemia. Al contrario, oltre alla generosa corsa di migliaia di volontari a dare una mano nelle regioni più colpite, accanto ai medici-eroi ed agli infermieri che hanno dato tutto al servizio dei malati e, troppo spesso, hanno contratto il virus in corsia, abbiamo dovuto assistere in questi mesi alle solite speculazioni sui fondi pubblici applicate all’emergenza.
I grandi gruppi che gestiscono la sanità privata stanno guadagnando anche col Covid 19 e non sorprende scoprire che una parte non minuscola degli utili viene sottratta al fisco italiano e trova riparo in paesi come, per esempio, il Belgio, governo inflessibile sui conti degli altri.
Mentre in tutte le regioni d’Italia la sanità impegna più della metà del bilancio, ci sono regioni come la Lombardia o il Lazio dove ormai la maggior parte dei fondi stanziati vengono intercettati dalle strutture private in convenzione.
L’aziendalizzazione degli ospedali ha portato la sanità pubblica a focalizzarsi sul risparmio chiudendo i reparti più costosi, come le maternità sotto un certo numero di parti, privando di presidi necessari anche le zone più lontane dai grossi centri e disagiate. Sono stati soppressi posti letto,personale, esami diagnostici, ed esternalizzati, cioè affidati a cooperative e ditte private, molti servizi.
Il Sud, cioè la parte del Paese che avrebbe maggiore bisogno di investimenti (anche) nella sanità, ha pagato più di tutti questo processo, a fronte del quale, per contrappeso, i privati accreditati sono stati lasciati liberi di scegliere i settori a minore rischio e più alto reddito, di assumere e licenziare a piacimento medici e infermieri, pagandoli a propria discrezione (cioè molto meno), di fare pochissimo pronto soccorso e moltissima diagnostica, prescrivendo esami e interventi non sempre utili.
Il parametro usato per rimborsare le prestazioni in strutture private convenzionate è uguale al costo sostenuto per la medesima prestazione da una struttura pubblica, la quale, però, è chiamata ad accollarsi anche gli enormi costi del pronto soccorso e degli altri settori più difficili.
La regione che ha puntato di più, negli scorsi anni, sulla privatizzazione, la Lombardia, vantata come oasi d’eccellenza, soprattutto nella prima ondata dell’epidemia ha mostrato tutti i danni che la logica liberista applicata alla salute può produrre. Tuttavia non solo in Lombardia si continua a insistere su una linea che privilegia i privati, ma questa tendenza si riscontra anche in regioni come il Lazio, la cui guida politica è di segno opposto. A Roma, per esempio, ma non solo, i molti ospedali privati o religiosi muniti di reparto rianimazione non sono ospedali Covid e, quando lo sono,accettano pochissimi pazienti contagiati ea caro prezzo, fuori dalle tariffe stabilite in convenzione.
Così, in Italia abbiamo visto gli ospedali pubblici ricoverare i malati di Covid in condizioni peggiori, per i quali serve un di più di mezzi di protezione, più turni di personale, maggiore sterilizzazione, la netta separazione dei percorsi, quindi, in definitiva, costi maggiori. E invece i malati di patologie diverse dal Coviddalle strutture pubbliche sono stati dirottati verso la sanità privata, la quale così ha acquisito dal pubblico le degenze più “redditizie” ed ha anche incrementato la “clientela” con i moltissimi pazienti che rifuggono gli ospedali pubblici per timore del contagio.
Ma è poi sempre vero che curarsi in clinica privata è meglio che in un ospedale pubblico? Sovente la tanto decantata eccellenza del privato trova riscontro solo nell’aspetto esteriore delle cose, nell’efficacia della comunicazione più che delle cure prestate ai pazienti.
Nelle strutture sanitarie private tutto risponde alla logica del massimo profitto, i pazienti sono merce, anche quando vengono trattati meglio che nel pubblico e ricevono buone cure. Come in tutte le aziende commerciali, le attrezzature in dotazione devono rendere al massimo e perciò ai medici viene “consigliato” di prescrivere esami spesso inutili, non risolutivi, se non addirittura dannosi, per il paziente.
E non si guarda ai risultati economici solo in termini di utile diretto, ma anche nell’ottica del valore dell’azienda sul mercato, un mercato che trova sempre dietro l’angolo le multinazionali: la libera circolazione dei servizi, in base all’accorso TiSA (Trade in Services Agreement, il trattato internazionale della libera circolazione dei servizi del quale si discute da decenni) può aprire infatti la strada alle grandi corporation per appropriarsi di interi sistemi sanitari nazionali.
Questa realtà abbassa pericolosamente, anziché elevare, il livello generale della sanità, perché un servizio medico scrupoloso, con visite accurate, con un’attenta e approfondita analisi clinica dei pazienti, non è praticabile nel pubblico a causa dei tagli sempre più forti, con i dirigenti sanitari che vengono remunerati da bonus sul risparmio e non sulla qualità delle cure, perciò vengono chiusi i reparti che richiedono cure complesse e maggiore attenzione al malato, e nei centri in funzione, fermo da anni il turn-over, al personale vengono imposti turni impossibili.
Ma la clinica è interdetta anche e soprattutto nel privato, perché non vi si può dare un valore commerciale, non può essere venduta e quindi viene considerata uno spreco, e si mettono insieme specializzazioni diverse per ottimizzare i costi.
Una realtà amara, che non si può accettare. La salute, come la scuola, non possono diventare settori come tanti altri, da cui ricavare profitto. Sono servizi sociali essenziali che, nel nostro sistema costituzionale, devono essere erogati a tutti i cittadini e i residenti. Sono, in altre parole, beni comuni la cui fruizione è funzionale a diritti costituzionalmente garantiti.
Servirà questa pandemia a cambiare rotta?
Se non c’è molto da illudersi sulla reale volontà della classe politica di andare oltre le parole di circostanza, se sempre più forte e aggressiva diventa la lobby della sanità privata, sorretta da uno stuolo di economisti neoliberali, di burocrati, dirigenti e baroni della sanità “aziendalista”, è anche vero che all’interno delle strutture sanitarie moltissimi, certo la maggior parte dei medici, considerano l’interesse pubblico come bene primario e lavorano mettendo al centro il malato come persona umana della quale salvaguardare la vita e il benessere.
Su questi fonda la speranza dei cittadini di buona volontà che non si rassegnano alle diseguaglianze, al definitivo abbandono del welfare.