Oggi intervistiamo Pietro de Silva, commediografo e regista napoletano, attore e interprete.
Piccolo e grande schermo. Arte e passione. Parlaci di te.
È una passione inesausta che si prolunga nel tempo e non ha mai requie.
Lo dico spesso agli allievi delle due scuole di recitazione dove insegno che non bisogna perseguire la quantità, ma la qualità.
Inutile sbattersi in 3500 esperienze inutili, meglio un progetto piccolo ma significativo che uno di grandi dimensioni ma privo di consistenza qualitativa.
L’importante è lasciare una traccia di te, bisogna vivere questo mestiere come una goccia che scava la pietra, bisogna accantonare l’effimero.
In questo folle mestiere si fa più notare l’assenza che l’eccessiva presenza.
È inutile esserci a tutti i costi per poi passare assolutamente inosservati con opere insulse che non lasciano alcuna traccia.
Una piccola intuizione può segnare un solco enorme.
Il nostro mestiere è come l’amore, il vero grande amore ti capita sempre inaspettatamente, e così il ruolo fatidico della tua carriera.
Il tuo grande talento ti ha portato a lavorare con i migliori professionisti del nostro paese. Fellini, Bellocchio, Benigni, De Crescenzo, Guzzanti, Castellitto. Ci racconti qualche aneddoto?
In un film di Sergio citti dal titolo “Il minestrone” che in effetti fu il mio primo film nel 1980, ricordo che in una scena girata in aperta campagna, Benigni, Ninetto Davoli, Giorgio Gaber, io ed un’altra decina di attori dovevamo avviarci di spalle verso l’orizzonte, il regista non diede lo stop e noi continuammo per almeno 500 metri. Quando ci girammo verso la macchina da presa ormai lontanissimi preoccupati dal fatto che non ci davano lo stop, ci accorgemmo che la troupe e la macchina da presa erano sparite. Fu uno scherzo straordinario… erano tutti fuggiti… Non avevano girato nulla.
Un film sull’Olocausto “La vita è bella”. Quanto ti lascia dentro?
È un’esperienza che ti porti dentro per sempre. Capita una volta nella vita, ammesso che capiti, di trovarsi in una storia così struggente e straordinaria, amata in ogni parte del pianeta. Questo film l’avrò visto almeno un centinaio di volte e ogni volta mi commuovo. Magia pura, tenerezza infinita. Un capolavoro.
Averne fatto parte per me è stato un grande privilegio.
Sei stato Boris Giuliano ne “Il capo dei capi”. Quanto orgoglio per aver rappresentato un eroe italiano?
Penso che nella mia carriera sia stato il personaggio che ho amato di più e quello che in assoluto mi ha dato più soddisfazioni.
Un uomo di grandissima levatura morale, che ha pagato con la vita il suo immenso coraggio di opporsi strenuamente e con tenacia all’orrore della mafia.
Ancora oggi incontro in ogni parte d’Italia, decine e decine di persone che non si stancano di rivedere le repliche di questa stupenda serie televisiva.
Alte performances recitative ed artista poliedrico. A teatro, “Il marito di mio figlio” del regista Daniele Falleri. Ce ne parli?
Vedo che stai citando in assoluto tutte le opere che ho amato di più. Teatralmente parlando, “Il marito di mio figlio” è uno di quegli spettacoli che, se fosse possibile, replicherei per 20 o 30 anni consecutivi.
Interpretare un padre omofobo, nemico giurato della diversità, che poi nel secondo tempo si trasforma in donna assoluta, trovo che sia una trovata assolutamente esilarante che dà l’opportunità ad un attore di sbizzarrirsi e soprattutto divertirsi in maniera inusitata.
Ti riconoscono grande entusiasmo e grande acume. Eppure questo lavoro non è semplice. Quanto amore nell’essere e fare l’attore?
Amore tantissimo sicuramente e anche una notevole dose di incoscienza perché il mestiere dell’attore è il più precario della terra ed anche il più imprevedibile.
Per sopravvivere a questo mestiere devi riuscire ad avere moltissimi interessi paralleli, non si può stare con la testa 24 ore su 24 a crogiolarsi o ad affliggersi su come procede la tua carriera.
Croce e delizia come direbbe Giuseppe Verdi, se capiti in un progetto scritto con grande classe ed originalità, ben diretto e con colleghi straordinari, può essere un’esperienza unica, ma se tutti questi parametri o parte di questi parametri, vengono a mancare, può essere un supplizio raro, quindi ci vuole molto pelo sullo stomaco e moltissima forza d’animo per proseguire con dignità e ottimismo.
Progetti futuri?
Teatralmente parlando interpreterò una commedia di Armando Curcio dal titolo “A che servono questi quattrini” nel ruolo che fu di Eduardo De Filippo, al Teatro Ghione e al teatro Manfredi di Roma, che poi porteremo anche in tournée.
Per il cinema ho interpretato diversi ruoli in opere di giovani artisti emergenti, che usciranno in sala a partire da gennaio 2019.
Giovani smettete di fare gli attori oppure non mollate? Ci piacerebbe un consiglio da chi è attore, regista, commediografo con una carriera di ben 44 anni
Guadagnarsi l’affermazione e la stima del pubblico sono una miscela di casualità, talento e fortuna.