La lira turca in ripresa certifica che il peggio, forse, è alle spalle, ma soprattutto ha rivelato una verità su cui in pochi sarebbero stati disposti a scommettere: la Turchia non è sola.
Nello stesso periodo in cui il Paese passa al contestatissimo modello presidenziale, disegnato, ispirato e voluto dal presidente Recep Tayyip Erdogan, virando verso una deriva autoritaria contro cui buona parte dell’Occidente non ha mai nascosto le proprie perplessità, sono le politiche da poliziotto cattivo del presidente americano Donald Trump a far uscire allo scoperto una schiera di amici che in pochi sospettavano Ankara avesse.
“Non costringeteci a cercare nuovi amici e alleati”, tuonava Erdogan appena pochi giorni fa, nel giorno del minimo storico della lira turca. Pochi minuti dopo riceveva la telefonata dell’amico Vladimir Putin, giusto per fare un esempio di quale poteva essere la direzione data alla politica estera di Ankara dopo le umiliazioni subite per mano di Washington.
Dopo che il ministro degli Esteri Sergej Lavrov aveva definito “illegali” le sanzioni Usa, il capo del Cremlino ha promesso al collega turco “più di sei milioni di turisti in arrivo dalla Russia”. Una promessa che Erdogan ha immediatamente rivelato al proprio elettorato che è consapevole della gravità della situazione, ma altrettanto sicuro del fatto che nessuno meglio del presidente possa traghettare il Paese fuori dall’impasse.
Sostegno è arrivato anche dal Kuwait, che ha immediatamente promesso 1,6 miliardi di dollari di investimenti, ma soprattutto dall’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al Thani, ieri ad Ankara per un incontro a sorpresa con Erdogan durante il quale ha garantito investimenti per 15 miliardi di dollari.
Scontato il sostegno di altri due Paesi ricchi di risorse energetiche: Azerbaijan e Iran. Se da un lato Teheran non perde occasione di schierarsi contro Trump, dall’altro conviene ricordare che all'alternativa “o con gli Usa o con gli Iran” posta dal presidente americano, il ministro del commercio di Ankara aveva prontamente replicato che la Turchia non ha alcuna intenzione di troncare i rapporti energetici e commerciali con Teheran.
In pratica l’intero scacchiere energetico da cui la Turchia dipende non ha alcuna intenzione di abbandonare Ankara.
La Turchia che riscopre di avere tanti amici si è ritrovata al proprio fianco anche la Cina, colpita anch’essa dai dazi su alluminio e acciaio e che ha criticato la reazione sproporzionata della Casa Bianca, ma anche l’Unione Europea.
Proprio in queste ore Erdogan ha in programma un colloquio telefonico con il presidente francese Emmanuel Macron. Difficile che quest’ultimo si discosti da quanto detto ieri al telefono dalla cancelliera tedesca Angela Merkel al presidente turco. La Germania, primo partner commerciale di Ankara, vuole una Turchia "economicamente in salute", e vede nell’eventuale destabilizzazione del Paese "un rischio che nessuno vuole correre".
Anche l’Italia è tornata a dire la sua, con il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, che in un’intervista al Foglio ha garantito pieno sostegno alla Turchia, auspicando per Ankara “un ruolo più centrale nel Mediterraneo” e bollando le tensioni con gli Usa come “una cattiva notizia per tutti”.
Non saranno quindi le sanzioni e i dazi di Trump a far fallire la Turchia, lo aveva ripetuto come un mantra Erdogan, che ha avuto gioco facile a far passare le minacce americane come “un nuovo tentativo di golpe” e serrare i ranghi del proprio elettorato, convinto a seguirlo, fosse anche in fondo al baratro.
La decisione con cui Erdogan ha reagito, insieme ai petrodollari e al lavoro delle diplomazie hanno probabilmente contribuito alla significativa ripresa della lira turca con la valutazione che ha toccato quota 5,78 dopo che lo scorso 13 agosto servivano 7,24 tl per eguagliare il valore di un dollaro; un dato che sanciva una perdita di valore di circa il 40% in poche settimane.
Dall’altra parte l’intransigenza dell’amministrazione Trump, madre di una crisi economica che per 24 ore almeno ha fatto tremare anche le borse europee, pur sempre scaturita in seguito alla mancata liberazione del pastore evangelico americano Andrew Brunson, in carcere in dall'ottobre 2016 con accuse di terrorismo.
Trump si è detto “frustrato” per la decisione del tribunale di mantenere Brunso ai domiciliari, da Ankara hanno risposto di essere molto più frustrati loro, che da due anni attendono dagli Usa l’estradizione di Fetullah Gulen, ritenuto la mente del golpe del 2016, esiliato di lusso in Pennsilvania.
Vedi: Chi stalla parte della Turchia? Le nuove amicizie di Erdogan dopo la lite con Trump
Fonte: estero agi