AGI – L’epidemia rialza la testa, i contagi tornano a salire, così come i ricoveri, le terapie intensive, e molto lentamente anche i decessi. In Italia è cominciata la terza fase dell’epidemia: dopo la prima, quella più drammatica, con una crescita esponenziale e apparentemente incontrollabile tra febbraio e aprile che ha costretto al lockdown, è arrivata la ritirata, più lenta e oscillante, ma via via più marcata, che ha portato al crollo del numero dei nuovi casi e all’abbattimento pressoché totale di ricoveri e decessi.
Da agosto è però iniziata la risalita, che sembra al momento assai diversa da quella vertiginosa della prima fase ma presenta numerose incognite, a partire dal fatto che siamo ancora in estate, e nessuno può prevedere cosa succederà in inverno, il secondo nell’era del coronavirus. Tre fasi: per questo nell’altalena dei dati è possibile fare un confronto fra tre giornate accomunate dal numero dei nuovi contagi, ma diversissime da tutti gli altri punti di vista, per tentare di capire cosa sta succedendo e cosa succederà.
Ieri si sono registrati 1.907 nuovi casi, un balzo in avanti rispetto ai 1.585 del giorno prima. Tuttavia le percentuali tra asintomatici, casi lievi e casi gravi o gravissimi sono completamente cambiate. Secondo i dati Iss, aggiornati al 15 settembre, oggi tra tutti i malati ancora attivi (esclusi quindi i guariti e i deceduti) lo 0,49% è in terapia intensiva: il 27 aprile, intorno al picco della prima ondata (che vide proprio in quei giorni il massimo di posti letto occupati dai malati critici, oltre 4mila), era il 2%.
E ancora: i ricoverati in regime ordinario sono oggi il 4,79% del totale, mentre ad aprile erano il 17,5%. I casi definiti “lievemente sintomatici” sono il 19,89%, mentre erano il 35,5%, e i pauci-sintomatici sono oggi il 14,15% contro il 16,3% di 5 mesi fa. A cambiare ancora più radicalmente è il dato sugli asintomatici: nel pieno della prima ondata erano appena il 13,3%, oggi sono il 60,77%. Al dato del 27 aprile si aggiunge poi un 13,3% con condizioni cliniche “non specificate”, lascito probabilmente della grande difficoltà di quelle settimane a raccogliere i dati dopo lo “tsunami” di marzo.
Partendo dal presupposto che, malgrado le numerose ipotesi avanzate in questi mesi circa un virus “addolcito” rispetto alla strage dello scorso inverno, non ci sono ancora prove scientifiche convincenti, la ragione di queste differenze così evidenti va cercata altrove. La prima, come si è detto spesso, è la modifica radicale dei criteri diagnostici: all’inizio dell’epidemia, e ricordarlo oggi sembra sia già passata un’eternità, le raccomandazioni del ministero della Salute e del neonato Comitato tecnico-scientifico erano quelle di eseguire il tampone prevalentemente su soggetti sintomatici o con link accertati con casi positivi.
Sulla scorta dei suggerimenti dell’Oms, tragicamente erronei visto che si basavano sulla convinzione che solo i sintomatici contagiassero e che comunque gli asintomatici fossero in percentuale molto pochi. Oggi sappiamo che è esattamente il contrario, per questo i test sono molto più a tappeto. Per giunta, nella prima ondata il sistema era palesemente non pronto (in Italia ma anche, come si è visto, nel resto del mondo), quindi la quota di malati non identificati da screening e tracciamenti è via via aumentata.
In sostanza, è cambiato il denominatore, che ampliandosi e comprendendo schiere di positivi senza sintomi, specialmente i giovani che nella prima fase erano quasi del tutto sfuggiti ai radar, ha causato il calo matematico della quota di casi gravi o gravissimi. Inoltre sono migliorate le capacità diagnostiche dei medici, la risposta del sistema sanitario, la protezione verso le categorie più fragili (a partire dalle Rsa falcidiate dalla prima ondata), senza dimenticare l’elemento più importante, cioè le misure di protezione ormai adottate da mesi, cui si aggiunge la riduzione dell’età media, che dai 60 anni della prima fase è scesa sotto i 30 nel periodo di “bassa marea”, per tornare adesso a risalire e a superare i 40 anni.
Ecco perché i 1.907 casi di ieri sono completamente diversi dai 1.900 casi che si registrarono, ad esempio, il 2 maggio: i tamponi erano 55mila quel giorno, mentre ieri sfioravano i 100 mila. Con una percentuale testati-tamponi del 6,08% (ossia ogni 100 persone testate 6 risultavano positive), mentre ieri era del 2,75%. Meno appropriato è il confronto numerico con l’occupazione delle terapie intensive e dei decessi, imparagonabili perché il 2 maggio avevamo ancora gli ospedali pieni dei malati della prima ondata: se oggi le terapie intensive occupate sono poco più di 200, il 2 maggio erano 1.539, con un trend però in netto calo, mentre i ricoverati erano 17.357 contro i 2.387 di oggi.
Essendo di nuovo in una fase di crescita, è quindi più appropriato paragonare i dati di ieri con quelli dell’11 marzo, nel pieno della prima ondata: all’epoca i nuovi casi erano 1.797, quindi persino meno di quelli di ieri, ma i decessi furono 97 (ieri 10), avevamo già 5.838 ricoverati e addirittura 1.028 in terapia intensiva, in netta crescita.
Insomma, a detta degli esperti le differenze sono legate a più fattori: il criterio diagnostico diverso, le migliorate capacità del sistema nel suo complesso, il diverso identikit dei soggetti contagiati e l’uso delle precauzioni con cui tutti abbiamo imparato a convivere. Cui va aggiunto l’obbligo di sottoporre a tampone i pazienti in procinto di ricoverarsi per altri problemi, una sorta di ulteriore screening da cui sono emersi in questo mese migliaia di casi che poi, in automatico, vengono conteggiati tra i ricoveri pur essendo il paziente in ospedale magari per un ernia o per una frattura.
Non per niente il virus, di suo, sembra essere sempre quello, con una netta predilezione per i più anziani: scorrendo gli ultimi dati Iss sui decessi, aggiornati al 7 settembre, è facile notare che il profilo delle vittime di questo mese non si discosta, se non appunto per il fattore numerico, da quello di marzo. L’età media è rimasta sempre sugli 80 anni, con un lieve calo nell’ultimo mese (ora è 78 anni) ma a conferma comunque che sono gli anziani i soggetti più a rischio.
Tanto più se con diverse patologie pregresse: proprio come a marzo le vittime del Covid in Italia soffrivano in media di altre 3 patologie. Appena il 3,8% non ne aveva, il 13,6% ne aveva una, il 20,1% due e il 62,6% 3 o più patologie. Febbre, dispnea e tosse rappresentavano e rappresentano tuttora i sintomi più comuni nei pazienti costretti al ricovero. Si potrebbe dire, in conclusione, che forse il virus non è cambiato, ma siamo sicuramente cambiati noi. Segno che nella infinita disputa tra scienziati “ottimisti” e “pessimisti” forse quello che servirebbe di più ora per evitare che la terza fase somigli pericolosamente alla prima è solo un po’ di realismo.
Vedi: Le differenze tra la prima e la seconda ondata del Covid
Fonte: cronaca agi