AGI – Il 12 agosto 2000 sul Mare di Barents soffiano ancora i venti della Guerra Fredda. L’Unione Sovietica si è dissolta da dieci anni e la marina russa è solo un pallido ricordo della gloria che fu. Nel porto di Severomorsk la flotta del Nord arruginisce e i sottomarini atomici sono cannibalizzati per usare i pezzi di ricambio per quelli ancora funzionanti. Il rilancio della potenza militare della Santa Madre Russia voluto da Vladimir Putin è ancora di là da venire, eppure c’è un battello che ancora è l’orgoglio della marina russa: il sottomarino nucleare Kursk,
Il 12 agosto di vent’anni fa è un sabato mattina: il Kursk, lungo 154 metri e con appena 5 anni di servizio alle spalle, partecipa alle esercitazioni navali nel Mare di Barents, al confine tra Russia e Norvegia. Alle 11,28 ora locale (in Italia sono le otto e mezzo del mattino) i sismografi norvegesi registrano una grande esplosione seguita da una seconda più potente due minuti dopo.
Passano 24 ore prima che la marina russa localizzi il Kursk. Tutti i contatti radio con l’equipaggio sono persi. L’unica registrazione sarà il segnale SOS che un marinaio a bordo del sottomarino fa sbattendo una spranga contro lo scafo dell’imbarcazione.
Verso la fine della giornata la marina schiera un primo mini-sottomarino che urta il relitto e deve rientrare immediatamente.
“Problemi tecnici” è la laconica spiegazione che la marina russa dà il 14 agosto per annunciare al pubblico l’incidente, con un ritardo di due giorni. Lo stato maggiore della marina russa parla di una “esplosione nel primo portello del siluro”, che avrebbe affondato il sottomarino in acque neutrali a 150 chilometri da Severomorsk. Assicura che il reattore al momento dell’incidente era spento, che a bordo non c’erano testate nucleari e che non è stata registrata alcuna fuga radioattiva.
Secondo la marina i 107 uomini di equipaggio – intrappolato a 108 metri di profondità – hanno abbastanza ossigeno per sopravvivere fino al 18 agosto.
La Russia rifiuta le offerte di aiuto da Gran Bretagna, Norvegia e Stati Uniti e con attrezzature vecchie o inadatte e affrontando una violenta tempesta, prosegue da soli i tentativi di salvataggio, che inanellano un fallimento dopo l’altro. Anche Italia e Germania offrono aiuto, ma niente. Putin non vuole dare segni di allarmismo e non lascia Sochi, sul Mar Nero, dove è in vacanza. Solo 4 giorni dopo l’incidente fa la sua prima dichiarazione, descrivendo la situazione come “critica”, ma assicurando che “abbiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno”. Poche opre dopo, però, si mette al telefono con Bill Clinton per discutere della missione di salvataggio.
Alla fine la Russia accetta aiuto dalla Gran Bretagna e richiede assistenza dalla Norvegia, anche se Putin non interrompe le sue vacanze e il suo silenzio attira il fuoco dei media.
Il 18 agosto Putin torna a Mosca. Le possibilità di un salvataggio riuscito “sono molto piccole, ma esistono”, dice. Il 21 agosto, dopo 30 ore, i sommozzatori norvegesi riescono a entrare nel sottomarino: L’interno del Kursk è completamente allagato. Sono tutti morti.
Il giorno seguente a Vidyayevo, il piccolo villaggio della marina costiera e base di partenza del Kursk, le famiglie dei membri dell’equipaggio si riuniscono e Putin affronta le critiche delle vedove in lacrime.
Putin ha ricordato la tragedia del Kursk come uno dei momenti più difficili della sua carriera politica. Il nome del sottomarino affondato rimane legato alla freddezza, con cui il presidente avrebbe poi affrontato in pubblico altri episodi altrettanto drammatici del suo lungo ‘regno’, come la strage dei bambini nella scuola di Beslan. Intervistato al talk-show “Larry King Live”, poche settimane dopo, alla domanda “Cosa è successo al Kursk?”, rispose lapidario: “È affondato”.
L’ufficio del procuratore russo conclude le sue indagini nel luglio 2002 dichiarando che nessuno può essere ritenuto responsabile. L’incidente è stato causato da un’esplosione in uno dei tubi lanciasiluri e non c’era speranza di salvare l’equipaggio. Tutti sono morti al più tardi otto ore dopo la deflagrazione.
A raccontare le ultime ore degli uomini del Kursk è un foglietto, su cui un ufficiale ha scarabocchiato il proprio addio alla famiglia. Viene scoperto in ottobre nella tasca della sua divisa quando il corpo viene portato via dal sottomarino. Almeno 23 marinai erano sopravvissuti per diverse ore dopo l’esplosione e avevano cercato riparo nella parte posteriore della, aspettando i soccorsi. Invano.
Vedi: Sono passati 20 anni dal disastro del sottomarino Kursk
Fonte: estero agi