C’è una scrittura, nel nostro Paese, nel nostro modo di fare letteratura, che si sta perdendo. È una scrittura che non è mai fine a se stessa, ma non è nemmeno sacrificata alla trama. Non precipita in modo dozzinale da un paragrafo all’altro inseguendo il ritmo a tutti i costi e non indugia (o indulge) in vane esplorazioni intorno all’ombelico dell’autore.
È, piuttosto, una scrittura votata alla storia, al significato delle cose attraverso la loro descrizione, alla ricerca di quel senso che hanno tanto gli oggetti quanto gli avvenimenti e che danno anima ad accadimenti che altrimenti resterebbero sterili successioni di inchiostro nero su carta bianca.
Di questa scrittura Nicola Lecca è uno degli interpreti – verrebbe da dire dei custodi – più sinceri. I suoi lavori (a partire dalla raccolta di racconti ‘Concerti senza orchestra’ con cui fu candidato allo Strega vent’anni fa) hanno sempre avuto un comune denominatore che è l’eleganza e la precisione di uno stile che pure non ha mai sacrificato la profondità della storia, la cura dei personaggi, la fascinazione dell’intreccio.
‘Treno di cristallo’, la sua ultima opera arrivata nelle librerie pochi giorni prima dell’imposizione del lockdown, risulta essere straordinariamente attuale, ma non come lo sono stati i saggi e i romanzi su contagi e pestilenze che hanno subito conquistato la classifica, quanto piuttosto perché è una storia che in qualche modo costringe a guardarsi intorno in un momento in cui questo ‘intorno’ è limitato alle mura di casa.
La metafora del viaggio in ‘Treno di Cristallo’ (Mondadori, 249 pagine, 18 euro) non è certo inedita, né inedita è la scoperta che un diciottenne fa del mondo che fino al quel momento gli è stato (e si è) precluso, ma Lecca la usa in un modo che la fa apparire del tutto nuova perché ci costringe a guardare oltre quelle quattro mura che, quando hanno smesso di sembrarci prigione, ci appaiono come un rifugio che è difficile abbandonare. L’introduzione alla consolatoria, anche se mai confortante, routine del giovane Aaron, altro non è che una presentazione di quel nido che in questi mesi abbiamo costruito – a volte adattato – intorno a noi. Un luogo dove tutto, anche le emozioni, è a portata di mano ed è riconoscibile per averlo avuto sempre sotto agli occhi.
A Broadstairs, incantevole villaggio della costa inglese, Aaron lavora come apprendista in una gelateria storica e vive in simbiosi con Anja: una madre depressa e protettiva che gli tiene nascosta l’identità del padre e nulla racconta di Zagabria, la città dalla quale sono fuggiti quando lui era piccolo. Ed è proprio alla ricerca dell’eredità di questo genitore nascosto che il ragazzo parte rompendo il guscio che lo ha protetto e proiettandosi in un mondo di cui ignora le dinamiche più estreme.
Sprovveduto e impreparato alla vita, Aaron affronta la sua personale Odissea che dall’Inghilterra lo porta alla Croazia passando per Amburgo, Praga, Lubiana, Bratislava e Szentgotthárd. Paesaggi molto cari all’autore – l’Europa settentrionale e centrale è stata spesso al centro dei suoi romanzi – e che Lecca conosce talmente bene da restituirceli in minuscoli dettagli che non appesantiscono la storia, ma la arricchiscono, trasformandola in un ammaliante viaggio che, prima ancora che in qualunque luogo, ci porta nella parte più profonda delle nostre solitudini.
Vedi: Il 'Treno di cristallo' di Nicola Lecca che ci porta fuori dall'isolamento
Fonte: cultura agi