Strumento digitale e indagine tradizionale. Telegram si conferma uno dei luoghi digitali (leciti) dove si consumano più spesso reati legati al sesso. Questa volta di mezzo c’è il revenge porn: foto e video pornografici usati per vendetta. Un’indagine coordinata dalla Polizia Postale ha portato alla denuncia di due amministratori di altrettanti canali e di un utente. Ogni gruppo ha migliaia di utenti iscritti. Uno incita allo stupro sin dal titolo. Ed è ancora online. Perché fermare un admin o denunciare un utente per aver condiviso foto della ex non equivale a bloccare l’ondata di miglia di messaggi al giorno.
Si tratta, quasi sempre, di materiale pornografico legale. Le conversazioni, però, si spingono spesso oltre. Basta scorrere uno dei canali per ritrovare commenti offensivi, alcuni riferimenti a Tiziana Cantone (morta suicida dopo la pubblicazione di un video) e decine di richieste di contenuti “pedo”, che non vengono scambiati direttamente “in pubblico” ma rimandano a chat private. Non è quindi semplice intercettare chi commette un reato. E nel caso del revenge porn lo è ancor meno.
Nelle chat gli utenti postano spesso immagini di quella che dicono essere la propria ragazza, invitando gli altri a insultarla. Che sia vero o meno, le indagini non possono partire senza una querela. Difficile che arrivi perché non è semplice capire se le proprie foto sono finite online senza consenso. “La legge che istituisce il revenge porn come fattispecie criminosa è del 2019. Da agosto a oggi, i numeri non corrispondono alla realtà”, afferma Alessandra Belardini, dirigente della Polizia Postale. Denunce e denunciati sono solo un frammento di quello che circola, non solo su Telegram. Quantificare il fenomeno è quindi impossibile. Si può però dire che “le vittime sono per la maggior parte donne e che è in aumento, anche perché siamo tutti chiusi in casa e usiamo di più le piattaforme digitali”.
Ma perché proprio Telegram? Con la crittografia end-to-end, solo chi partecipa a una chat può conoscerne il contenuto. Ma c’è altro. Belardini, pur sottolineando che non è certo l’unico ambiente con gruppi nocivi, afferma che “dipende dalle policy”. L’app ha dei termini di servizio molto scarni. Punisce lo spam e le truffe. Vieta anche “post pornografici illegali” e “l’incentivo alla violenza”, ma solo se “visibili pubblicamente”.
È qui si gioca molto. Perché Telegram ha gruppi aperti (dove i contenuti sono in teoria punibili) e altri chiusi. I primi possono essere ricercati per nome, un po’ come si fa per un qualsiasi contenuto su Google. I secondi hanno bisogno di un invito, sotto forma di link. La distinzione è facilmente aggirabile: basta creare un gruppo pubblico e metterci dentro il link che rimandi a un altro. Molti canali borderline hanno già un “gemello” di riserva, dove gli utenti possono confluire in vista di un possibile blocco. Il gruppo viene chiuso? Se ne crea uno nuovo, con un nome molto simile.
Anche nel caso di quest’ultima inchiesta, chiamata Drop the Revenge, la denuncia degli amministratori non ha portato in automatico alla chiusura del canale. Gli utenti, infatti, stanno continuando a postare immagini e commenti, adesso accompagnati a insulti nei confronti di chi denuncia e degli “sbirri”.
Anche se il campo è diverso, spiega Belardini, “l’indagine è tradizionale”. Dopo la denuncia, anche con infiltrati nei gruppi, si cerca di risalire all’amministratore e poi all’IP, cioè al suo “indirizzo informatico”. Non basta. Perché l’IP individua un dispositivo, non la persona. “Chi ha le chiavi di una casa, non è per forza il proprietario”, afferma Belardini.
Serve quindi dimostrare chi abbia usato il pc o lo smartphone, grazie a una perquisizione informatica. È quello che è successo per i tre denunciati. Nel caso del 35enne di Nuoro, la Polizia postale ammette di essere stata “fortunata” perché ha sorpreso il ragazzo in flagranza, mentre era su Telegram. Il 29enne bergamasco, un utente non amministratore, è stato denunciato per aver pubblicato la foto della ex compagna. Per il secondo admin coinvolto, un 17enne palermitano che vive con i genitori, è stato decisivo “un suo errore”. Come nelle indagini “analogiche”, anche in quelle digitali è decisivo il classico “passo falso”, individuato, spiega Belardini, dopo aver seguito uno schema di gruppi e app “a scatole cinesi”.
“È un percorso lento, che va avanti anche per tentativi”. Il minore di Palermo aveva anche trovato il modo di guadagnare: vendendo foto per 2-3 euro, è riuscito a incassarne circa 5.000. Ma niente sistemi di pagamento complessi: usava delle carte prepagate. Si tratta comunque di un caso poco ricorrente: “Quel che muove il revenge porn non è il lucro ma la vendetta”.
Chiedere la collaborazione di Telegram è un’utopia. L’app si limita a bloccare canali solo quando l’autorità lo impone (che però non avviene per singoli casi di revenge porn). Invocare il buonsenso degli amministratori e una moderazione più stringente è un controsenso. Secondo Belardini, oltre a punire il fenomeno, l’unico modo per arginarlo è “agire ex ante e non ex post”.
“L’abuso deriva dalla leggerezza del momento”. Questo non vuol dire evitare sempre di mostrarsi, se fa parte del proprio piacere. Ma ci sono modi più sicuri di farlo, come suggerisce la Polizia Postale, ad esempio usando “un supporto esterno o una cartella criptata” anziché lo smartphone. “Dobbiamo cercare di intervenire sull’educazione all’intimità sessuale e alla condivisione”. Cioè sui comportamenti privati e sulla conoscenza degli strumenti che si stanno utilizzando.
Vedi: Come funziona il revenge porn su Telegram
Fonte: innovazione agi