di redazione
Il 27 gennaio del 1945, in un’aria gelida, le truppe dell’Armata Rossa del generale Kurockin arrivarono ad Auschwitz, il campo di sterminio nazista in territorio polacco, già da giorni abbandonato dai tedeschi, svuotato con l’uccisione di migliaia di prigionieri e l’evacuazione di altri 60mila, avviati alle “marce della morte”.
La prima pattuglia a cavallo arrivò verso mezzogiorno. Superato il cancello sormontato dalla scritta “Arbeit macht frei”, agli occhi stupefatti dei soldati sovietici apparve l’indescrivibilee. I circa 7 mila prigionieri che erano stati lasciati nel campo vagano con gli occhi spenti nei corpi scheletrici, molti erano bambini, alcuni, circa cinquanta, avevano meno di otto anni ed erano sopravvissuti perché avevano fatto da cavie per gli esperimenti “medici”.
Cumuli di vestiti, valigie, occhiali, scarpe (il museo di Auschwitz ne conserva ancora più di centomila paia) e tonnellate di capelli.
Quel giorno fu svelato al mondo l’orrore dei campi di sterminio. Per questo l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 2005, ha scelto di istituire il 27 gennaio di ogni anno come “Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah”.
Primo Levi, che si trovava deportato nel lager di Monowitz, uno dei campi di lavoro che formavano il complesso di Auschwitz, fu tra i primi a vedere arrivare i soldati russi. Egli descrisse la scena nel primo capitolo de “La tregua”, intitolato “Il disgelo”. Eccone alcuni passi.
“La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sòmogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era più alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e così era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo.
(…) Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni. Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi.
(…) Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che non pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggì come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.
A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati più gravi”.