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25 luglio 1943. La caduta di Mussolini

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di Gene Lallo

In un’afosa serata romana, il 24 luglio del 1943, era un sabato, nella sala del Pappagallo a Palazzo Venezia, si riunì il Gran Consiglio del fascismo.
Gli umori del Paese, della monarchia, dello stesso partito fascista erano cambiati col mutare delle sorti della guerra. Lo sbarco degli alleati in Sicilia era stato uno choc traumatico sia per il gruppo dirigente, colto di sorpresa, che per gli italiani, ai quali Mussolini aveva assicurato che il nemico non avrebbe mai superato la “linea che i marinai chiamano del bagnasciuga”. Invece nella notte tra il 9 e il 10 luglio le truppe di George Smith Patton, il “generale d’acciaio” sbarcarono sulle coste siciliane con 160mila soldati, 285 navi da guerra, due portaerei, 4mila aerei, 14mila automezzi, 1800 cannoni e 600 carri armati.
Nella sala del Gran Consiglio il caldo era soffocante, l’oscuramento imponeva di tenere le finestre chiuse e le tende tirate.
Dino Grandi, assieme a Federzoni e Bottai, presentò l’ordine del giorno da lui scritto, il cui contenuto Mussolini già conosceva, con il quale si chiedeva di restituire al re il comando supremo delle Forze Armate, fino a quel momento nelle mani del “duce”. Il documento invitava “il capo del Governo a pregare la Maestà del Re di assumere con l’effettivo comando delle Foze Armate… quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono”.
Si trattava, quindi, di ripristinare i poteri costituzionali attribuiti al re dallo Statuto Albertino: in pratica, la fine della dittatura. La riunione durò per quasi tutta la notte, il dibattito assunse toni drammatici e si concluse con una votazione. A favore dell’ordine del giorno Grandi votarono, oltre allo stesso proponente, Federzoni, Bottai, Gottardi, Rossoni, Albini, Ciano, Pareschi, Acerbo, De Vecchi, De Bono, De Marsico, Bastianini, De Stefani, Alfieri, Marinelli, Balella e Bignardi. Anche Suardo e Cianetti in un primo momento avevano votato sì, ma poi ritirarono l’adesione. Mussolini rimase in netta minoranza, votarono contro soltanto Farinacci, Galbiati, Polverelli, Scorza, Biggini, Tringali Casanova, Buffarini Guidi e Frattari.
Alle cinque del pomeriggio del 25 luglio, Benito Mussolini, convocato dal re, si presentò a villa Savoia, accolto dal sovrano, il quale gli disse che “l’Italia era in tocchi” e che l’esercito era “moralmente a terra” e lo invitò perentoriamente a rassegnare le dimissioni da primo ministro. All’uscita Mussolini, non più capo del governo, non ritrovò il suo autista, ma fu accolto da una pattuglia di carabinieri armati, venne caricato su un’ambulanza della Croce Rossa e portato prima alla caserma Podgora, poi in quella di Via Legnano.
Terminava così la giornata, forse, più lunga della storia italiana. La mattina successiva il “piccolo” re Vittorio Emanuele III, 74 anni, conferì al maresciallo Pietro Badoglio, 72 anni, l’incarico di formare il nuovo governo. Molti, ancora oggi, sono i dubbi e le incertezze sugli avvenimenti di quei giorni cruciali. Probabilmente l’operazione aveva preso le mosse da un incontro tra il re e Dino Grandi avvenuto all’inizio di giugno. Vittorio Emanuele III, vincendo titubanze e timori che da sempre lo paralizzavano, aveva dovuto arrendersi all’evidenza dell’incapacità di Mussolini di gestire la guerra e di uscire dalla subalternità nel rapporto con la Germania, così da un lato ordì con i suoi consiglieri una trama da lui personalmente diretta, dall’altro lato avallò l’operazione dei gerarchi i quali, probabilmente, pensavano di poter gestire una nuova fase, evolutiva, del regime fascista e, comunque, consapevoli dell’impossibilità che i tedeschi vincessero la guerra, cercavano una via di salvezza personale.
Il Gran Consiglio del fascismo, dietro alla pomposa denominazione, era stato per tutto il ventennio un orpello decorativo, privo di ogni effettivo potere; così come la legalità costituzionale nel quadro dello Statuto Albertino era diventato lettera morta di fronte alla dittatura mussoliniana.
Si trattava adesso per per il re e per i gerarchi dissenzienti dal dittatore, in assenza di un Parlamento costituzionale, di elaborare in fretta un’operazione dai complessi risvolti giuridici e istituzionali, dando alle decisioni del Gran Consiglio del fascismo il valore di quel pronunciamento parlamentare che, a norma di Statuto, sarebbe stato necessario per legittimare il re a togliere l’incarico di presidente del Consiglio dei ministri a Mussolini.
Più complicato, invece, è capire perché Mussolini (che pure ne era stato accoratamente sconsigliato dalle sue due donne, la moglie Rachele e l’amante Claretta), perché non capì in quale trappola lo stavano spingendo, come mai accettò di mettere in discussione l’ordine del giorno Grandi che gli era stato sottoposto in anticipo.
Gli storici non danno a questi interrogativi risposte univoche. Una tesi interessante è quella sostenuta da Giovanni Sabbatucci secondo cui Mussolini, quando accettò di convocare il Gran Consiglio “era molto indebolito e doveva fare qualche concessione ai suoi oppositori”. Secondo Sabbatucci Mussolini si rendeva conto che l’o.d.g. Grandi “gli sottraeva quel potere totale che aveva esercitato fino a quel momento. Sornione, finse di essere sconcertato. Ma quella soluzione non gli dispiaceva. Il disastro era alle porte e con quella mozione avrebbe condiviso le sorti della guerra con il monarca. Non si aspettava però di essere arrestato”. “Il re, sempre così prudente, avendo avuto l’avallo delle gerarchie fasciste, giocò le sue carte. Mussolini di lui si fidava. Solo pochi giorni prima lo aveva definito ‘il mio migliore amico’. Vittorio Emanuele lo colse di sorpresa” (Giovanni Sabbatucci, e Vittorio Vidotto, “Storia del Novecento”, Laterza).
È di grande interesse un memoriale scritto da Dino Grandi anni dopo (forse nel 1958) e inviato a Luigi Federzoni, i cui eredi lo consegnarono allo storico Renzo de Felice. Nel memoriale, rimasto a lungo inedito e poi pubblicato, nel 2013, sulla rivista “Nuova Storia Contemporanea”, Grandi, parlando di se stesso in terxa persona, si definisce un “fascista liberale” e sostiene che la svolta del Gran Consiglio non fu frutto di un complotto ma di una lunga gestazione iniziata già nel 1938 in un incontro con il re già nel 1938. “L’ordine del giorno – egli dice – maturò nelle trincee d’Albania”, dove Grandi si trovava nel 1941.
A proposito dell’atteggiamento del duce, nello scritto di Grandi si trova una suggestiva analisi psicologica: “Non è vero che Mussolini fosse quella notte in condizioni fisiche debilitate, che non gli permisero di lottare come egli avrebbe potuto. Mussolini era invece sveglio, all’erta e conscio perfettamente di quello che diceva e faceva. Qui occorrerebbe entrare nella psicanalisi del dittatore. Una delle nature più complesse, problematiche e contraddittorie che si potesse immaginare… Mussolini fu sempre l’uomo più indeciso che Grandi abbia conosciuto. Fino all’ultimo momento, Mussolini esitava e consapevolmente o no faceva di tutto per creare le condizioni per cui fossero a lui possibili decisioni diverse e tra loro contraddittorie… Fece di tutto, insomma, per vincere. Ma non si può negare nello stesso tempo che egli fece anche di tutto per perdere… Durante la seduta egli avrebbe avuto ad ogni momento la possibilità di interromperla, di provocare l’arresto degli oppositori come domandavano gli stessi membri del Gran Consiglio, suoi sostenitori… In realtà, quella notte Mussolini volle vincere e volle perdere allo stesso tempo”.
Per Lucio Villari “le dittature possono terminare o tramite una rivoluzione e per implosione e questo fu il caso del regime mussoliniano” (Lucio Villari, prefazione del libro di Paolo Monelli “Roma 1943”, Einaudi).
Comunque sia, non appena la notizia della defenestrazione del dittatore venne resa pubblica dalla radio, la gente pensò che la guerra sarebbe finita e, come racconta Renzo De Felice, “la gioia traboccò da ogni parte d’Italia mentre il governo Badoglio faceva il suo sciagurato esordio”.
Ma il maresciallo Badoglio, appena insediato, gelò tutte le aspettative, annunciando “La guerra continua”.
Si aprì invece, il 25 luglio del 1943, una nuova fase, con rsisvolti drammatici, della guerra e della storia d’Italia.
Non appena messo in minoranza Mussolini, che aveva ricoperto il ruolo di presidente del Consiglio del Regno d’Italia ininterrottamente dal 31 ottobre 1922, iniziarono i 45 giorni fatali che portarono all’8 settembre, quando fu annunciata (dagli americani) la firma dell’armistizio con gli alleati, che determinò il disfacimento dell’esercito.
In quei 45 giorni la storia d’Italia visse una fase travolgente, con la costituzione del primo governo Badoglio e la rinascita nel Nord della Repubblica Sociale Italiana, con la fuga da Roma del re e del suo seguito e i bombardamenti su Roma e Milano. Quindi l’avvio della guerra civile, con le divisioni drammatiche la cui memoria non condivisa pesa ancora oggi sulla vita politica, sociale e culturale del Paese.