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1984, la polizia inglese attacca i minatori in sciopero nella “battaglia di Orgreave”

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Il 18 giugno 1984, nello Yorkshire scozzese, ebbe luogo quella che passerà alla storia come “la battaglia di Orgreave”, l’evento forse più drammatico nel corso del lungo sciopero dei minatori britannici contro le politiche economiche e sociali del governo Thatcher. In quel lunedì di giugno la percezione che gli inglesi avevano dei governanti, della polizia e del Paese cambiò per sempre. Fu una battaglia, parte di una guerra che sembrava mossa dal governo contro il suo stesso popolo.

Era un bel giorno d’estate e circa 5000 minatori, giunti lì a interrompere la fornitura di carbone raffinato alla cokerie, si erano radunati in un campo presso l’impianto della British Steel Corporation, quando migliaia di poliziotti arrivarono convergendo da tutte le parti della nazione. La cavalleria fu spedita alla carica e fece irruzione nel campo al gran galoppo. Il dispiegamento di forze dell’ordine, cani e cavalli non aveva precedenti. La polizia, in pieno assetto militare, assalì, arrestò, picchiò selvaggiamente  i minatori, per poi abbandonarsi alla devastazione di case e villaggi.

Un sacco di uomini si erano tolti le magliette e le avevano messe nelle loro tasche. E certamente questo non è il genere di cose che faresti quando stai organizzando un attacco a una forza di polizia seriamente equipaggiata – avevano i loro lunghi scudi, portavano caschi protettivi, manganelli. Non affronti polizia come quella con null’altro che un paio di jeans e scarpe da ginnastica. Perciò abbastanza categoricamente affermo che non ci fu la minima intenzione da parte dei minatori di attaccare la polizia. Io stessa, con molti altri minatori, fui costretta a scappare e a trovare riparo.

 

Le foto delle violenze scioccarono il Paese, su tutte l’immagine che ritraeva un poliziotto a cavallo nell’atto di sferrare un colpo di manganello contro Lesley Boulton, autrice della testimonianza sopra riportata. Negli anni seguenti, 39 operai intentarono causa al ministero degli interni, vinsero e furono risarciti per le violenze subite. Molti anni dopo, il capo della polizia Alan Billings dichiarerà:

Non sappiamo con precisione cosa sia accaduto a Orgreave, perché sia stato necessario un simile dispiegamento di forze armate, né se fu coordinato dal governo. […] Uno di quei momenti, a mio avviso, in cui la polizia diviene quasi interamente uno strumento di Stato; uno di quei momenti che è meglio evitare.

A voler stilare un’ideale classifica delle lotte che più epicamente hanno segnato la storia e l’iconografia del movimento operaio internazionale, quella dei minatori inglesi del 1984-85 occupa a buon diritto una posizione di assoluto rispetto. È stato il più lungo sciopero di massa dell’Occidente dai tempi della Prima guerra mondiale: un anno esatto fra il marzo ’84 e quello dell’85. Fu una guerra di classe, combattuta su un campo di battaglia vasto quanto la Gran Bretagna: nelle brughiere di Scozia, Galles, Yorkshire e Kent si fronteggiarono 165.000 minatori e alcune decine di migliaia di poliziotti. Alla fine si conteranno 2 morti, 1750 feriti ufficiali, 11.312 arresti, 5.653 processi per direttissima, un migliaio di licenziamenti per rappresaglia.

La lotta ebbe inizio allorché, nel marzo ‘84, Ian Mc Gregor, presidente del NCB – l’ente pubblico del carbone, che gestiva l’industria estrattiva britannica pressoché completamente nazionalizzata e amministrava i 176 pozzi dove lavoravano 120.000 dei 183.000 occupati nel settore – diede il via al piano del governo Thatcher, annunciando la chiusura di 20 pozzi, con la perdita immediata di 20.000 posti di lavoro. Il NUM, diretto da Arthur Scargill – comunista, carismatico, eccezionale oratore – rispose dichiarando una settimana di sciopero. Poi le settimane diventarono due, tre, quattro; la Thatcher non cedette ma neppure i minatori: tre mesi, sei mesi, un anno.

Nei primi anni Ottanta il carbone era divenuto troppo costoso e i sindacati troppo potenti per chi, come la Thatcher, intendeva aprire una nuova era nei rapporti sociali del suo paese. Il negoziato non era un’opzione. Il sindacato dei minatori chiedeva una politica di sovvenzioni statali, Thatcher aveva una visione opposta. Era da poco al secondo mandato, aveva vinto nelle Falkland, e coi minatori, nucleo militante del sindacalismo britannico, aveva un conto in sospeso da quando, fra il ’72 e il ’74, li aveva visti sconfiggere il governo di Heath, suo mentore e primo ministro. “Maggie” aveva fatto tesoro di quella sconfitta, e quando partì all’attacco, il 1° marzo ‘84, aveva preparato con cura ogni mossa.

La reazione fu immediata e si propagò subito; in poche settimane tutti i pozzi del paese furono bloccati, eccetto nel Nottinghamshire, dove si costituì anche un sindacato giallo. I picchetti volavano da un sito all’altro, provando ad aggirare i presidi stradali di una polizia da stato di assedio. I lavoratori venivano pestati, arrestati, fotografati e identificati; i media si scatenarono, e ci fu una raccolta fondi per quanti volevano tornare al lavoro, giacché le famiglie avevano appena subito un taglio dei benefit di 15 sterline alla settimana.

La legislazione sugli scioperi fu modificata, limitando fortemente i comportamenti consentiti ed estendendo i poteri degli organi giudiziari e delle forze di polizia: i lavoratori in lotta vennero in sostanza equiparati dalla legge ai terroristi dell’IRA, cosa che suscitò gravi critiche anche all’estero.

Intorno alla lotta si coagulò tuttavia un imponente movimento di solidarietà; “Accendi alle sei”, era lo slogan della campagna che invitava ad accendere le lampadine tutti insieme alle sei in sostegno allo sciopero; in migliaia esibirono sul petto “I support Miners”, l’etichetta pro minatori; ovunque spuntarono i tavoli coi barattoli gialli della raccolta fondi; giovani, donne, studenti costituirono combattivi comitati di appoggio; ogni città si gemellò con una miniera; centinaia di volontari formarono “picchetti volanti” per presidiare i pozzi e impedire l’ingresso dei crumiri (assoldati dal governo e protetti dalla polizia); i negozianti di zona concessero credito e sconti.

Le donne furono molto attive, nel sostenere i compagni in lotta, organizzare mense per la distribuzione dei viveri e promuovere vaste manifestazioni appoggiate dal movimento femminile laburista e internazionale. Il movimento gay ospitò fra applausi scroscianti una delegazione di minatori alla parade di Londra di quell’anno. Portuali e ferrovieri rallentarono l’approvvigionamento delle acciaierie, snodo cruciale del conflitto; non si mobilitarono invece i camionisti e apparve latitante il Labour Party di Kinnock. Quando l’intero patrimonio del NUM, reo di sciopero “illegale”, venne posto sotto sequestro col preciso intento di logorare i lavoratori, affamandoli, Scargill chiese e ottenne la solidarietà dei sindacati internazionali.

 

Ma tutto questo non fu sufficiente. Dopo un anno senza paga, senza aver ottenuto niente, con il NUM irrimediabilmente sconfitto e migliaia di famiglie sul lastrico, nel marzo ‘85 Scargill fu costretto a dichiarare la fine dello sciopero.

In pochi anni quasi tutte le miniere del Regno Unito chiusero i cancelli, nel 2000 ne rimanevano solo 13, mentre il numero di addetti scendeva da 181.000 a 8.000, quasi tutti a gestione privata, col Regno Unito che importa oggi 40 milioni di tonnellate di carbone l’anno. Per la chiusura di 60 pozzi, il governo Thatcher spese 900 milioni di sterline l’anno, due volte e mezzo più delle sovvenzioni necessarie a mantenerli in vita.

Dietro la guerra senza quartiere contro i minatori non ci furono meri motivi economici, ma precise scelte politiche, sintetizzate nel Rapporto di Lord Ridley, braccio destro, ispiratore e “uomo nero” del governo britannico: l’obiettivo era lo smantellamento del Nemico Interno, vale a dire quel vasto settore pubblico e nazionalizzato che vantava sindacati molto forti, da realizzarsi “sopprimendo le aziende nazionalizzate che non garantiscono profitti (la siderurgia, le ferrovie, le acque, il gas, il carbone, coi relativi lavoratori e sindacati) e aprendo al capitale privato quelle che rendono”. Il Rapporto non tralasciò di fornire “indicazioni precise sulla necessità di ampliare le possibilità di intervento poliziesco e concedere ai tribunali poteri sufficienti a dichiarare illegale ogni efficace risposta di lotta”, e per stroncare i minatori fu messa in campo “una svolta autoritaria che conferì alla polizia un profilo analogo a quello di un’armata di occupazione”.

Come ricorda lo scrittore David Peace, “The Strike non fu il punto di svolta, ma L’Ultima Battaglia, l’ultima possibilità. Semplicemente fu l’idea di società e comunità opposta al “no society” della Thatcher, all’ognuno per sé. Lei aveva capito qual era la posta in gioco e per questo scelse consapevolmente la brutalità.”.

La Lady di Ferro aveva vinto, ma a quale prezzo. La società ne uscì a pezzi, la pace sociale saltata, intere aree del paese in rapido declino, famiglie sul lastrico; il tasso di disoccupazione toccò nei bacini carboniferi e metallurgici il 13%, mentre il rialzo dei tassi di interesse e delle imposte impedì al sistema creditizio di aiutare chi era in difficoltà. Il costo per l’economia fu di quasi 4 miliardi di sterline, il doppio del costo della guerra nelle Falkland.

Fu un evento tragico e violento, nel quale il governo di un Paese scagliò tutte le sue forze contro cittadini-lavoratori che pagavano le tasse e li distrusse. Ma il sacrificio di quella gente capace di resistere così a lungo per salvare la propria comunità e tutte le altre che vivevano solo di carbone è ancora oggi ricordato e celebrato come un esempio di solidarietà, di un modo diverso di vivere.

Scrive Salvo Leonardi, esperto di relazioni industriali:

Quando il 3 marzo 1985 la dirigenza del NUM delibera con 98 voti a 91 la fine dello sciopero, quei “musi neri”, ormai estenuati e a malincuore, decidono di tornare nei pozzi, accompagnati però dalle fanfare e dai gonfaloni sindacali. Entrano a testa alta, fieri di quel loro orgoglio operaio, consci di aver scritto comunque una pagina di storia. Nell’unica maniera che era stata loro concessa: quella di chi si oppone.

 

Di Silvia Boverini – fonte: me-dia-re.it/