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1980 – Cosa Nostra uccide il presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella.

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Il presidente della Regione Siciliana fu ucciso 40 anni fa in un agguato davanti alla sua casa di Palermo. Su esecutori e mandanti occulti non è stata mai fatta piena luce e la pista del legame tra eversione nera e mafia è legata a un’arma che potrebbe essere stata usata in più delitti
Quarant’anni fa gli spari sul sogno della nuova Sicilia. La mafia e la spirale terroristica avevano abbattuto la speranza politica più autorevole dell’Isola: Piersanti Mattarella, presidente della Regione siciliana, allievo di Aldo Moro, siciliano tenace e capace, lucido e ostinato propugnatore di una politica dalle “carte in regola”. Una sfida, questa, ancora attualissima, insieme a quella per la verità piena su questo delitto che la procura di Palermo è tuttora impegnata a ricostruire compiutamente.
Il 6 gennaio 1980 Piersanti Mattarella era uscito dalla sua abitazione di via Libertà ed era salito a bordo della sua Fiat 132 per andare a messa, insieme alla suocera, alla moglie Irma Chiazzese e ai figli Maria e Bernardo. Niente scorta: il presidente la rifiutava nei giorni festivi, voleva che anche gli agenti stessero con le loro famiglie. Si era appena messo al volante, quando si avvicinarono i killer che spararono una serie di colpi. Accanto a lui il fratello Sergio, attuale presidente della Repubblica, che lo prese tra le braccia. Il 24 maggio di quell’anno avrebbe compiuto appena 45 anni.
L’isola piombò nuovamente nel suo inferno, in un destino che appariva sempre più segnato e senza scampo né redenzione possibile. Questa stessa zona della città, quella attorno a via Libertà, cuore urbano del capoluogo, in quegli anni era diventata il crocevia del terrore mafioso: lì vicino, in via Di Blasi, il 21 luglio del ’79, era stato ucciso il capo della Mobile Boris Giuliano. Una scia di sangue, iniziata quell’anno, il 26 gennaio, con l’uccisione del giornalista Mario Francese. Il successivo 9 marzo era stata la volta del segretario provinciale della Dc, Michele Reina.
Il 25 settembre del ’79 furono ammazzati il giudice Cesare Terranova e il maresciallo Lenin Mancuso. Piersanti Mattarella da tempo si era reso conto della necessità di recidere con urgenza e nettamente i legami della politica e del suo partito con la mafia, con quegli uomini che “non facevano onore al partito stesso”.
La vicenda giudiziaria è stata lunga e complessa. E non definitiva. Come mandanti sono stati condannati all’ergastolo i boss della commissione di Cosa nostra (Totò Riina e Michele Greco su tutti, con gli altri esponenti della cupola: Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci). L’inchiesta, però, non è riuscita a identificare né i sicari ne’ i presunti mandanti esterni. Nel 2018 la procura di Palermo ha riaperto l’inchiesta sull’omicidio: nuovi accertamenti considerati doverosi, anche attraverso complesse comparazioni fra reperti balistici, per quanto siano resi complicati dal lungo tempo trascorso e dalle sentenze passate in giudicato.
Nel mirino ancora una volta i Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, il cui capo, il terrorista nero Giusva Fioravanti, riconosciuto dalla vedova di Piersanti Mattarella, fu processato e definitivamente assolto dall’accusa di essere stato il killer. Uno dei reperti del processo celebrato a Palermo, la targa di un’auto del commando, sarebbe stata divisa in due dagli autori del furto e una parte fu poi ritrovata in un covo dell’organizzazione terroristica neofascista. Dal punto di vista processuale, peraltro, la collaborazione tra “neri” e mafiosi, in vari fatti e azioni delittuose, basata su un presunto scambio di favori tra mafia e terrorismo di estrema destra, era già stata più volte sostenuta, ad esempio per la strage del dicembre 1984 del Rapido 904.
C’è poi l’ultimo capitolo sulle armi che uccisero Piersanti Mattarella e il giudice antiterrorismo Mario Amato; sono dello stesso tipo, una Colt Cobra calibro 38 Special, ma non c’è alcuna certezza sulla loro identità: non si puo’ dire cioè che il presidente della Regione Sicilia e il giudice, assassinati rispettivamente a Palermo e a Roma, nell’arco di poco meno di sei mesi, nel 1980, siano stati uccisi con la stessa pistola.
Si tratta, allo stato, di un’ipotesi ritenuta “suggestiva”, ma sulla quale non possono esserci i necessari riscontri tecnici, gli unici che potrebbero dare una qualche conferma oggettiva o pressoché oggettiva. Nella nuova inchiesta del Ros dei carabinieri, coordinata dal procuratore Francesco Lo Voi, qualsiasi comparazione con i proiettili estratti dal corpo di Mattarella, a causa del lunghissimo tempo trascorso dal fatto, è sostanzialmente impossibile. quadro resta dunque complesso e non definitivo su questo e altri aspetti. Nei giorni scorsi il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, aveva assicurato che “si prosegue nel delicato e complesso lavoro di desecretazione”.
È stata resa pubblica l’audizione di Giovanni Falcone del 3 novembre 1988 che “risponde anche a domande in merito all’omicidio di Piersanti Mattarella dell’Epifania del 1980: come si ricava dalla lettura del documento, oggi pubblicato per la prima volta, Falcone definisce l’indagine ‘estremamente complessa’, dal momento che ‘si tratta di capire se e in quale misura la pista nera sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”.
Falcone, ricordava Morra, “ancora ammonisce, trattandosi di una ‘materia incandescente’, sulla necessità di non ‘gestire burocraticamente questo processo’. Continueremo a lavorare”. “Ancora troppi pezzi mancano all’appello, a partire – e non è un caso – dagli esecutori materiali. L’omicidio Mattarella è ‘una brutta storia’, come lo definì Cristiano Fioravanti”, ha detto di recente l’ex sostituto procuratore di Palermo, Roberto Tartaglia, oggi consulente dell’Antimafia.
Tartaglia, già titolare dell’inchiesta aperta dalla procura diretta da Francesco Lo Voi, lanciava un appello a Giusva Fioravanti, processato e assolto in via definitiva dal delitto: “Il mio non vuole essere un invito a Fioravanti a fare dichiarazioni su quello specifico episodio. Una persona in questo momento libera come Valerio Fioravanti, che partecipa a un percorso sociale molto importante, a distanza di tanti anni e con la certezza di non potere essere processato per le stesse cose, potrebbe aggiungere dei tasselli per ricostruire alcuni segmenti misteriosi che lo collegano alla Sicilia in quel periodo”.
Tornando alle armi, l’inchiesta nel cui ambito sono state effettuate le verifiche è della procura di Palermo, che ha riaperto il caso relativo al delitto di 40 anni: vicenda già chiusa con una sentenza definitiva di condanna della Cupola mafiosa, come mandante dell’omicidio, ma pure con l’assoluzione (non più impugnabile) dei due presunti esecutori materiali: oltre a Fioravanti anche Gilberto Cavallini, già condannato come killer del giudice Amato.
Il fatto che a sparare sia stata una Colt Cobra è pressoché certo, perché, sulla base degli accertamenti dell’epoca, emerse che la traccia che la filettatura della canna lasciata dalla pistola sul proiettile era sinistrorsa e non destrorsa, come di regola avviene nelle altre armi a tamburo: caratteristica, questa, propria delle Cobra 38 Special. Quando però si è trattato di effettuare la comparazione con la pistola usata da Cavallini per uccidere il giudice Amato (il 23 giugno 1980, nella Capitale), gli esperti del Racis dei carabinieri si sono ritrovati di fronte a una difficoltà oggettiva: dato che il piombo dei proiettili usati contro Mattarella era deteriorato e ossidato, la comparazione e’ stata tentata con le foto dell’epoca, realizzate però dai periti balistici (peraltro oggi deceduti) con altri obiettivi, la classica individuazione del tipo di pistola che aveva sparato. Dalle foto non si evidenziano cioè in maniera adeguata se le striature siano riconducibili proprio alla canna della calibro 38 Special che uccise Amato, nè la cosiddetta prova da sparo ha risolto il dubbio.
Restano gli interrogativi. Quel che è certo, è che un pezzo di storia e di giustizia è ancora da scrivere.
di Giuseppe Marinaro – fonte: AGI