Tito Stagno, in collegamento con l’inviato Rai a Houston, conduce la più lunga diretta della storia della televisione italiana (25 ore). È il primo sbarco dell’uomo sulla Luna
di Paolo Jedlowski
21Estate del 1969. Verso le otto di sera del 20 luglio comincia su Rai 1 la più lunga diretta della storia della televisione italiana (25 ore). In studio coordina l’evento Tito Stagno, a Houston il corrispondente è Ruggero Orlando: è il primo sbarco dell’uomo sulla Luna. Il Lem (il modulo di allunaggio che si è staccato dalla nave madre) tocca il suolo lunare verso le dieci di sera, e Neil Armstrong compie il primo passo verso le quattro di mattina (ore italiane). Poco dopo lo segue Buzz Aldrin. Mi ricordo di essere rimasto sveglio. Avevo 17 anni e tutto allora mi divideva da mio padre. Ma lo sbarco sulla Luna lo vedemmo insieme, e con noi altre trecento milioni di persone sulla Terra. Lo sbarco del primo uomo sulla Luna fu uno dei primi e più vasti media event della storia.
Un media event, scrive l’Enciclopedia Treccani, è un “evento reale ripreso in diretta dalla Tv, capace di sconvolgere le normali routine mediali, di coinvolgere un’audience enorme, di superare la distinzione tra notizia ed evento storico, di incidere sulla cultura e l’immaginario”. È un evento che raccoglie: per un momento la popolazione del nostro pianeta — o larghe parti di essa — si fa comunità.
Le missioni Apollo (quella che portò allo sbarco era l’undicesima) corrispondevano a uno sforzo economico ed organizzativo immenso. Gran parte del loro significato era politico: negli anni della Guerra fredda, la competizione per la conquista dello spazio era parte della lotta per l’egemonia culturale sul pianeta fra Usa e Urss. I sovietici erano stati i primi a far volare un essere umano in orbita intorno alla Terra: era avvenuto nel 1961, e l’astronauta era Yuri Gagarin. Ma, facendo stanziare finanziamenti enormi, Kennedy dichiarò che gli americani avrebbero vinto la sfida. Pochi anni più tardi la bandiera a stelle e strisce era sulla Luna: era una lotta per l’immaginario e ogni successo doveva essere un evento mediale planetario.
Sono passati cinquant’anni. Uno dei due contendenti non c’è più; ma vi è al suo posto la Russia e la competizione sembra ancora aperta. Ora è una lotta per la memoria: chi è stato il primo? Nel 2013 la Russia produce Gagarin. Primo nello spazio, con la regia di Pavel Parkhomenko; nel 2018 gli Stati Uniti rispondono con Il primo uomo, con la regia di Damien Chazelle, incentrato sulla figura di Neil Armstrong. In entrambi i film il senso della sfida che allora si giocava è ben ricostruito: l’obiettivo era vincere e marcare l’immaginario collettivo. Entrambi, pur in modi diversi, tendono a suscitare un senso di orgoglio nazionale. Al termine del film su Gagarin, studenti universitari escono dalle aule e si riversano nelle strade in festa alla notizia della riuscita del volo. In quello su Armstrong, l’accento finale è più intimo: lo spettatore è trascinato in un’esperienza di solitudine e mistero.
Eccitazione per l’esplorazione, per l’incognito, e timore: credo siano le parole giuste anche per definire i sentimenti che provavo io da ragazzo. Del resto, il tema della conquista dello spazio mi aveva accompagnato lungo tutto il decennio precedente. Avevo quattordici anni, più o meno, quando appesi nella mia stanza una mappa fosforescente della Luna. E l’anno precedente era uscito 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick: pedagogia dell’esperienza spaziale, poesia allo stato puro, e connotato da una forte componente filosofica. Davanti al monolite che è segno della presenza nell’universo di esseri diversi dall’uomo, la reazione evidenziata non è né paura né orrore (ciò che più spesso aveva caratterizzato la fantascienza precedente), ma la speranza: dall’incontro con intelligenze altre e superiori, ciò che può scaturire è una rigenerazione dell’uomo.
In quegli anni la storia sociale e quella della fantascienza furono appaiate. La fantascienza spaziale accompagnava quanto stava succedendo. Nei decenni seguenti, invece, lo spazio è sembrato uscire dal nostro immaginario. Pensiamo a Blade Runner, del 1980: accenna appena ad altri mondi, l’ambiente è la Terra, cupa, impoverita, palcoscenico di imprese senza scrupoli, desiderata solo da androidi che somigliano a lavoratori usa e getta (così li descriveva dieci anni dopo David Harvey in La crisi della modernità). La fantascienza successiva tende a presentare prospettive catastrofiche (accompagnata fra l’altro dalla presa di coscienza ecologista) o trova spunto nelle tecnologie della comunicazione: realtà virtuali, corpi e intelligenze artificiali. Lo spazio della fantascienza ora è introverso. È cambiato il clima culturale, ma è anche vero che i finanziamenti per la ricerca spaziale sono stati tagliati. L’ultima missione a portare un uomo sulla Luna è del 1972. I ragazzi delle generazioni successive alla mia non hanno avuto mappe della Luna nella stanza.
Oggi qualche cosa torna. L’interesse delle potenze della Terra per la ricerca spaziale ha ripreso a crescere, e al cinema lo spazio extraplanetario riemerge, trattato da registi di successo: Gravity, del 2013, con la regia di Alfonso Cuarón, Interstellar, del 2014, con la regia di Christopher Nolan, Il sopravvissuto (The Martian), del 2015, con la regia di Ridley Scott. In Italia, gli astronauti che partecipano a ricerche nelle stazioni spaziali che orbitano attorno alla Terra sono al centro dell’attenzione pubblica. Le foto di pianeti inviate dalle sonde fanno notizia sui giornali. Di nuovo sono in gioco interessi economici, militari, politici. Ed è in gioco che cosa immaginare.
A volte l’immaginario ha una funzione, per così dire, diversiva: invece di guardare alla realtà che inquieta, ci permette di immaginare qualcosa di più rasserenante. Ma ha anche altre funzioni. Dopotutto, agiamo sulla base di quello che sappiamo immaginare. E se lo spazio riesce a entrare nel nostro immaginario, è perché tocca qualcosa di profondo. Il cielo, in fondo, ci affascina da sempre, e visti dalla Luna sembriamo tutti abitanti del medesimo pianeta.
Nel 1969, che fosse in corso una lotta era chiaro a tutti, astronauti compresi. Ma Armstrong e Aldrin misero a fianco della bandiera americana i medaglioni con i nomi sia dei compagni della Nasa sia degli astronauti russi morti fino ad allora, nel corso della sfida.
Quanto a me e a mio padre, intorno al Sessantotto era in corso una lotta che il clima della Guerra fredda, a confrontarlo, sembra mite. A unirci, almeno nel ricordo, fu quella notte trascorsa a guardare il suolo della Luna.
Fonte: rivistailmulino.it/