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19 anni di euro: ecco cosa rappresenta la moneta unica

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di Antonino Gulisano

Sono trascorsi 19 anni dall’adozione dell’euro nell’ambito dell’Unione Europea. Era il 1º gennaio 2002 quando in dodici Paesi dell’Unione ebbe inizio la circolazione della nuova moneta.

L’introduzione dell’euro venne stabilita dalle disposizioni del Trattato di Maastricht del 1992 relative alla creazione dell’Unione economica e monetaria. La nascita ufficiale della moneta unica europea avvenne il 1º gennaio 1999, con un comunicato del Consiglio dei Ministri europei. Il debutto dell’euro sui mercati finanziari risale allo stesso 1999, mentre la circolazione monetaria ebbe effettivamente inizio il 1º gennaio 2002 nei dodici Paesi dell’Unione che per primi hanno adottato la nuova valuta. La moneta è suddivisa in 100 centesimi.

Quale fu il senso di quel progetto destinato a cambiare il volto dell’Europa?

Il cuore del Trattato di Maastricht  senza dubbio è stato la moneta unica europea.

L’idea di Delors, quando nel 1984 diventò presidente della Commissione, era di utilizzare la moneta unica come strumento per l’integrazione politica europea. Delors rovesciò il ragionamento di Spinelli: mentre i federalisti classici puntavano tutto sulla costituzione politica – con il risultato di scatenare il fuoco di sbarramento degli Stati nazionali – Delors considerò che il modo migliore per avvicinare l’integrazione politica era di approfondire e rendere irreversibile l’integrazione economica e monetaria. Se Spinelli era un massimalista, Delors apparve come un minimalista, perché partì dal basso, presentò i progressi nel processo integrativo come completamento del Mercato comune. Ma l’obiettivo era e resta identico: l’Europa unita.

Il progetto di integrazione europea fu concepito a tre stadi, ciascuno dei quali esprime la spinta sufficiente per passare a quello successivo. Primo, l’Atto unico (1986), con la conseguente creazione del Mercato unico; secondo, la moneta unica, sancita dal Trattato di Maastricht (firmato l’11 dicembre 1991), da realizzare per tappe entro il 1999; terzo, l’integrazione politica europea, con una configurazione istituzionale ancora da definire, ma in qualche modo collocata a mezzo fra federalismo e confederalismo.

Lo scenario cambia completamente con il crollo del Muro di Berlino, chesconvolge gli equilibri mondiali. Già al Vertice straordinario di Parigi (novembre 1989) si delinea quello che sarà lo scambio geopolitico implicito nel Trattato di Maastricht: l’Europa dà via libera alla Germania per la riunificazione in tempi rapidi, ottenendo come contropartita l’europeizzazione del marco.

Di fatto la moneta unica (poi denominata euro) sarà il marco – nessuno ha interesse a che valga di meno – con la differenza che a governarlo non sarà la Bundesbank, composta solo da tedeschi, ma la Banca europea, del cui consiglio di amministrazione i tedeschi saranno solo una delle componenti.

Dal novembre 1989 fino alla notte di dicembre del 1991, quando nella cittadina olandese di Maastricht viene varato il Trattato, la questione tedesca domina il tavolo ed è molto chiara: o la Germania resta in Occidente anche dopo essersi annessa la Rdt, oppure slitta verso il Centro e oscilla paurosamente fra il mondo occidentale e la Russia. Alla fine, la Germania accetta di integrarsi più strettamente in Europa, rinunciando persino alla sovranità sul marco a una data fissata (1° gennaio 1999), pur di garantirsi l’appoggio dei partner alla riunificazione.

La vera trattativa si svolse al coperto, circondata dal segreto più assoluto: la riunificazione tedesca non sarebbe stata possibile senza il consenso dell’Europa. Non è dunque vero che la partita con la Germania fosse giocata unicamente da Unione Sovietica e Stati Uniti, con l’appendice delle altre due potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, Francia e Gran Bretagna. Non è nemmeno vero che gli americani spingessero per concludere subito l’unificazione.

No, gli unici che avevano fretta erano i tedeschi. I quali sapevano benissimo che noi europei potevano stopparli. Quanto meno, potevano ritardare l’unificazione. Per fortuna, siamo stati abbastanza intelligenti da usare il nostro potere contrattuale in modo costruttivo.

Un ricordo personale molto vivo di De Michelis, a quel tempo ministro degli esteri nel governo Andreotti, può ben illustrare la sorda battaglia fra Kohl e gli altri leader europei, avvenuta al coperto ma non per questo meno esplicita.

Nel novembre 1989, su invito di Mitterrand, i leader dei Dodici si ritrovano all’Eliseo per discutere le conseguenze della caduta del Muro. Deve essere solo un incontro di facciata, una dimostrazione dell’unità dei Dodici in una fase tanto agitata, senza nessun impegno per favorire l’unificazione tedesca. Durante la cena, Kohl illustra quello che sarà poi il suo piano in dieci punti per l’unificazione, che si muove però ancora entro la cornice di una confederazione dei due Stati tedeschi.

Dopo cena, ci raduniamo intorno al caminetto per un caffè. Mitterrand al centro, attorno a lui i capi di Stato o di governo disposti a semicerchio, poi una seconda fila con i ministri degli Esteri. Io sono seduto alle spalle di Andreotti e Kohl. Mitterrand parla, e fa subito capire che per lui la questione dell’unità tedesca è un’eventualità storica, da esaminarsi in un futuro abbastanza imprecisato. Sullo stesso tono gli interventi degli altri, da Gonzalez alla Thatcher. Kohl diventa sempre più rosso di rabbia e quando tocca a lui sembra quasi che stia per piangere. Il succo del suo intervento è questo: «voi non potete farmi tornare a Bonn, dal mio popolo, senza un messaggio chiaro di appoggio dell’Europa alla riunificazione tedesca».

Dopo Kohl tocca ad Andreotti. Allora, dalla sedia dov’ero appollaiato, mi chino verso di lui e gli bisbiglio in un orecchio: «Presidente, adesso tutti si aspettano da te la stoccata finale. Sanno benissimo come la pensi sull’unificazione tedesca (per inciso, Andreotti veniva da una riunione della Nato in cui aveva avuto uno scontro molto forte con Kohl,). Ma qui hai un’occasione unica. Qui non bisogna badare alle proprie idee, ma alla politica. Proprio perché tutti sanno come la pensi, se tu apri uno spiraglio a Kohl le tue parole varranno doppio, abbiamo preparato una frasetta per fissare la posizione italiana. Con tutte le cautele diplomatiche, questa frasetta dichiara che l’Europa auspica e promuove l’unificazione della Germania. Niente di definitivo, ma è ciò di cui Kohl ha bisogno per superare l’impasse»”.

Fu proprio galeotto il caminetto. È facile criticare Maastricht con il senno di poi. Ma qual era l’alternativa? Con Maastricht noi abbiamo messo in moto un meccanismo che rende alla maggioranza dei tedeschi più conveniente stare dentro l’Europa che tentare nuove avventure solitarie. La fuoriuscita dal processo di integrazione europea è diventata per la Germania molto più costosa.

Da un’altra sponda c’è chi ha lavorato contro l’Italia.

Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, con la grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. È il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anni dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi italiani.

A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro Paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora “qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero”, bastavano alcuni interventi, “bisognava riprendere degli investimenti pubblici”. E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 “quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale”, il motore di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi.

Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e con Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie speculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. È il preludio al disastro planetario di oggi. Per sostenere gli investitori, le banche si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da “centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga”.

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della BCE di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative.

La scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano.

Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. Forse con questa emergenza della pandemia diCovid19 tutti gli Stati ripenseranno la strategia della globalizzazione non verso la finanza speculativa, ma verso nuovi investimenti di crescita, di sviluppo reale.

Il progetto del Recovery fund europeo, next generation, può rappresentare un primo passo verso lo sviluppo sostenibile in Europa. Tutto dipende da noi, in Italia, dal saper cambiare rotta e avere in campo progetti credibili, realistici e infrastrutturali e non continuare con i soli “bonus” o “ristori.


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