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1860 –la strage di Bronte

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La fucilazione

Insieme a quei cinque malcapitati, moriva anche lo spirito battagliero dei brontesi, tradito da Garibaldi, colui nel quale erano state riposte tante speranze

«Data la sentenza, – scrive Benedetto Radice – l’arciprete Politi andò al collegio a comunicare al Lombardo la ferale notizia; altri corsero al carcere a darne la novella al Saitta e ai fratelli Minissale.
Ascoltò tranquillo il Lombardo e disse: I miei nemici hanno alfine trion­fato. Dieci anni prima o dopo è lo stesso. Era questo il mio destino.»

Fu tra i pianti e le strilla di una sua donna celebrato in articulo mortis il matrimonio ecclesiastico; e, avuti gli estremi conforti della religione, stoicamente si preparò al gran passo.

«Quella sera – scrive Vincenzo Pappalardo – l’avvocato si preparò con serenità alla fine, sposando in articulo mortis una servetta, forse tenuta per amante, certamente bisognosa di quella parte di eredità che le nozze le avrebbero assicurato.
Era l’atto di estrema magnanimità di un uomo non privo di ambiguità, eppure animato da una spinta morale e utopica enorme, un gigante rispetto a quegli omuncoli gretti e vigliac­chi, meschini e profittatori che sospirarono di sollievo nel mandarlo a morte e nel ricacciare i contadini alla servitù di sempre.» (Un destino feudale, in La Ducea di Bronte di A. Nelson Hood, Bronte, 2005).

I parenti del Lombardo si presentarono al Bixio per implorare da lui di poter dare l’ultimo abbraccio al condannato; ma egli fieramente li respinse; e il povero garzone, andato a portargli delle uova, fu riman­dato con dure parole: Non ha bisogno di uova, domani avrà due palle in fronte!»

– Don Nicolò Lombardo del fu Don Francesco di anni 48 (avvocato, la vittima più innocente)

– Nunzio Spitaleri Nunno (del fu Nunzio di anni 40, villico),

– Nunzio Samperi Spiridione (di Spirione di anni 27, murifabbro),

– Nunzio Longhitano Longi (fu Giuseppe di anni 40, villico) e

– Nunzio Ciraldo Fraiunco del fu Illuminato, di anni 40, villico, il cinquantenne scemo del paese totalmente infermo di mente (“simbolo vivente dell’irrazionalità della moltitudine”, così lo definì Alberto Moravia),

additati come i provocatori dei saccheggi e delle uccisioni dei “galan­tuomini”, vittime di ragioni per loro incomprensibili, all’alba del 10 Agosto 1860 venivano fucilati in pre­senza di tutta la popolazione nella piazzetta antistante la Chiesa di San Vito «col secondo grado di pubblico esempio».

“Il domani venerdì, verso le 8, i condannati furono condotti al luogo del supplizio. Una folla immensa di popolo, nei cui occhi leggevasi lo spavento e la compassione, seguiva in ferale silenzio il corteo.

L’arciprete Politi e il sac. Radice li andavano confortando. Il Lom­bardo, aitante della per­sona, con lo sguardo mesto, con un cappello a cencio, procedeva a passi lenti, fumando un sigaro, lisciando la sua folta e nera barba, che gli scendeva sul petto, invitando i com­pagni a rispondere alle preci degli agonizzanti.

Giunti alla chiesa del Rosario si sentirono grida e pianti. Era una nipote del Lombardo. Alzò egli gli occhi al balcone, li riabbassò, dando un profondo sospiro, e voltosi agli astanti disse:

— Sono innocente come Cristo —

Un fremito e un lungo mormorio accolse le parole del condannato, che, austero, muto continuò il suo cammino.

Arrivati sulla piazza di S. Vito i cinque condannati furono posti a sedere in fila. Protestò di nuovo il Lombardo la sua innocenza, chiese in grazia di essere il primo fucilato, e volto ai compagni disse:

— Recitatemi il credo. —

Letta da un ufficiale la sentenza fu ordinato il fuoco. Caddero riversi un dopo l’altro tutti e cinque.

“Un condannato, risparmiato dalla scarica della fucileria, tenendo con la mano l’immagine della Vergine, come un talismano sul petto, gridava:

– Grazia! Grazia! –

Era il matto. Gli si avvicinò l’ufficiale e gli diede il colpo di grazia”.
Stava Bixio con gli occhi fissi, vitrei, a cavallo, come l’angelo della vendetta.
[…] I corpi dei giustiziati immersi nel proprio sangue furono lasciati fino a sera esposti al pubblico, spettacolo miserando e ammonitore. Questa esecuzione assai la plebe sbigottì, solo agli offesi soddisfece, quella per timore di peggio, questi per vedersi vendicati del danno e delle ingiurie patite”. (Benedetto Radice)

Quel 10 Agosto 1860, insieme ai cinque malcapitati, moriva anche lo spirito battagliero dei brontesi, tradito da colui nel quale erano state riposte tante speranze: dal “liberatore” Garibaldi, dietro il quale anche da Bronte erano partiti dei volontari per “fare” la rivoluzione.

L’azione imposta da Bixio ai giudici della Commissione mista di guerra fu frutto di scelta freddamente calcolata. Sacrificava certamente la giustizia ma rispondeva pienamente alle necessità della politica e alle dure leggi della guerra.

Le fucilazioni dettero ampia soddisfazione alla nazione britannica i cui interessi secolari sulla Ducea erano stati seriamente minacciati dall’on­data rivoluzionaria.

A Bronte non dovevano assolutamente scalfirsi questi privilegi, che il popolo voleva abbattere e che avevano intristito ed avvilito nella miseria per molte generazioni tutta la comunità brontese.

Pochi giorni dopo Bixio annunciava che “gli assassini e i ladri di Bronte sono stati severamente puniti… la fucilazione seguì immediata i loro delitti”. E – conclude il Radice – «tal fine ebbe Nicolò Lombardo. Egli andò a morte per i sobillamenti dei suoi nemici, e per soddisfazione della nazione britannica.»

«Il console inglese, affermò il Tenerelli Contessa davanti alla Corte d’assise di Catania, assalì a dispacci il Dittatore, chiedendo pronta ed efficace repressione. E siccome in quei supremi istanti l’uomo sparisce e la vita di lui non si calcola, purché si ottenga il fine, così dovettero offrirsi delle vittime ad un interesse politico momentaneo del rappre­sentante di una nazione straniera, fiera purtroppo del suo orgoglio e della sua dignità, e Nicolò Lombardo fu fucilato.»

E alla fine tutto tornava come prima: i “signori” al loro posto, i poveri contadini sempre più poveri. «In paese – conclude Verga la sua novella Libertà – erano tornati a fare quello che facevano prima; già i galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Così fu fatta la pace.»

E il Radice aggiunge che «così ebbe fine questa sanguinosa sommos­sa, che ira cumulata di generazioni per soprusi e ingiustizie, mal governo del Comune, pochezza di senno e di animo nelle autorità e nei cittadini, discordia e cupidigia di potere in tutti, fruttò al paese tanto esterminio e tanta morte!»

La tragedia di Bronte si era chiusa, e non era servita a niente.

Nino Bixio avrà per tutta la vita sulla coscienza i morti di Bronte; così si esprimeva in una lettera alla moglie: “Missione maledetta, dove l’uomo della mia natura non dovrebbe mai essere destinato”.

Ai brontesi non restavano che le condizioni miserevoli, la fame, il desiderio di “libertà” dalla schiavitù e dalla miseria e l’amara certezza delle promesse non mantenute.

Al primo sommario processo, fatto istruire da Bixio davanti alla Com­missione speciale e concluso rapidamente con cinque condanne a morte, ne seguì un altro contro  – scrive M. Sofia Messana Virga – «altri 145 imputati per reati minori, per i quali la pena prevista non era la fucila­zione; vennero trattenuti in carcere in attesa di essere trasfe­riti a Messina per essere messi a disposizione delle autorità del luogo, le quali avrebbero stabilito il da farsi.»

Il Consiglio Civico brontese, che continuava ad essere espressione della volontà dei “cappelli”, chiese ripetutamente che il processo fosse cele­brato a Bronte e dal Consiglio di Guerra. Ma il Governatore di Catania si oppose ed il processo fu celebrato davanti alla Corte d’Assise di Catania tra il 1862 e il 1863.

C’è da notare anche che quando Garibaldi, dopo la vittoria del Voltur­no, emanò, il 29 ottobre 1860 il decreto d’indulto, lo stesso Consiglio civico dette mandato ai suoi avvocati perché si interes­sassero a Catania per non fare estendere agli imputati del processo per i fatti dell’agosto i benefici dell’indulto.

«E così – scrive V. Pappalardo in L’identità e la macchia – i contadini servi del Duca e di una miseria senza riscatto, che al grido di Viva l’Italia! Viva Garibaldi! avevano pensato anche loro di essere chiamai a un Paese nuovo e più giusto, venivano esclusi dalla grazia che la nuova Italia concedeva a chi pur sbagliando l’aveva aiutata a nascere.»

Il 12 agosto 1863 la Corte d’Assise di Catania emise la sentenza definitiva con 37 condanne tra cui 25 ergastoli.

L’arringa dell’avvocato Michele Tenerelli Contessa, un catanese che difese davanti alla Corte d’assise di Catania cinque imputati del secondo proces­so – “appassionata, lucidissima, d’un avvocato colto e intelligente” – è stata pubblicata recentemente dalla “C.u.e.c.m.” (Catania, 1989) con una “Introduzione” del brontese prof. Gino Longhitano.

«Occorre dire che noi, a distanza di 125 anni da quegli eventi, siamo in grado di vederli e giudicarli in rapporto a più ampi e completi accertamenti ed, anche e soprattutto, con una valutazione più serena di uomini e cose. Ma in quei giorni, nell’eccitazione del momento, quando la casa bruciava, l’unica soluzione che era proposta ai giudici era quella della condanna a morte; ma era una soluzione per difetto perché molti, troppi altri imputati, avrebbero dovuto essere dinanzi al plotone di esecuzione.

Ma, ci chiediamo, cosa sarebbe avvenuto se i 13 testimoni a difesa fossero stati con­vocati ed ascoltati? se si fossero ascoltate le deposizioni del sac. Rizzo, del sac. Gae­tano Palermo attestanti che il Lombardo si era attivamente adoperato pel manteni­mento dell’ordine pubblico, o le testimonianze dei sacerdoti Giuseppe Di Bella, Vincenzo Leanza e di altri nel senso che, come leggiamo nella comparsa proposta il 9 agosto dal difensore, “diede tutta l’opera sua a poter frenare il tumulto”.

Ma queste testimonianze sarebbero valse a togliere importanza e valore a quelle gravissime formulate, come abbiamo visto, dalle parti lese?

E come mai, ci si chiede ancora, un solo professionista e “civile”, il Lombardo fu por­ta­to a morire, assieme a 3 “villici”, quali erano Nunzio Ciraldo Fraiunco, Nunzio Lon­ghita­no Longi, Nunzio Spitaleri Nunno ed un murifabbro (Nunzio Samperi Spiridione) mentre per gli altri due “civili” imputati (il medico chirurgo Luigi Saitta e il “civile” Carmelo Mi­nissale) fu ordinato che sul loro conto dovesse prendersi una più ampia istruzione?

Occorre dire che soltanto il cadavere di Nicolò Lombardo era il cadavere eccellente che poteva essere proposto come esempio ai malintenzionati e riottosi, alle popolazioni contadine che la secolare fame di terre poneva in agitazione e poteva facilmente condurre alla rivolta. E i responsabili di questo erano Nicolò Lombardo e i suoi compagni di fede societaria, di cui in questa sede è stata poc’anzi esaltata l’immagine.

Di lì a pochi giorni la divisione Bixio, sbarcata a Melito, in Calabria, costituì la massa di manovra per l’avanzata fulminea verso Napoli.

Bixio adempiva agli ordini ricevuti, ma sarebbe stato inchiodato a Bronte e dintorni qualora non fosse stato dato un esempio terribile ed il cadavere del Lombardo (ben noto fin dal 1848 nella provincia e in Sicilia) non fosse stato d’esempio, così come nell’età medievale ed anche, in tempi a noi più vicini, le teste dei decapitati erano lasciate alla visione del pubblico perché fossero di esempio a tutti quelli che passassero.» Salvatore Candido (Atti del Processo a Bixio, a cura di S. Scalia, Bronte 1985)

L’avv. Lombardo – affermò durante il Processo a Bixio il brontese avv. Armando Radice – «è stato il capro espiatorio che Bixio consegnerà alle nuove classi dirigenti, che hanno trovato alleanze perché non sia turbato il vecchio ordine e perché nulla cambi nella grigia, dolorosa atmosfera della nostra disgraziata terra.
La sentenza della commissione di guerra non è altro che il paravento giuridico di una decisione politica che Bixio, non si sa quanto responsa­bilmente, ha già adottato. La lettura del suo diario, l’esame più attento del suo carteggio, ci danno la prova più indiscussa che Bixio aveva stabilito che i cosiddetti capi sarebbero stati fucilati.»

Le 16 vittime ed i 5 loro presunti carnefici, vittime a loro volta di una sommaria giu­stizia, furono ben presto dimenticati; nessun ricordo, cerimonia o commemo­razione ebbe mai luogo nei decenni successivi.

Anzi qualche solerte amministratore, volle ricor­dare il Generale Bixio, dedicandogli una stretta stradina di fronte al luogo della fucilazione.

Solo dopo 50 anni, nei primi decenni del 1900, lo storico brontese B. Radice si adoperò per riscri­vere questa storia, per portare alla luce lo “scheletro nell’armadio” (come lo definì L. Sciascia), di cui tutti conoscevano l’esistenza, ma di cui nessuno parlava. E ripristinare un pò di verità sui Fatti fu anche lo scopo, nel 1972, del film di Florestano Vancini, “un padano, nato a Ferrara, così lon­ta­no da Bronte”.

Nel 1985 anche Bronte cercò di attirare l’attenzione sui Fatti rinviando a pro­ces­so Nino Bixio. Ma la stretta stradina di fronte a San Vito continuava a portare ancora il suo nome. Anzi, in perfetto equilibrismo, a pochi metri, in una villetta antistante fu eretto allora un piccolo monu­men­to ai cin­que malcapitati da lui fatti sommariamente fucilare.

Nessun pubblico ricordo, invece, per i sedici “cappelli” trucidati dai rivoltosi. Dovevano passare 150 anni dai Fatti per essere in qualche modo richiamati alla memoria. Nel 2010, nel 150° anniversario dei Fatti, il Comune di Bronte ha fatto murare su una parete del Convento una lapide con i 21 nomi (quelli delle 16 vittime e dei 5 loro presunti carnefici) «tutte vittime del cruento eccidio avvenuto a Bronte nel 1860. Il loro perenne ricordo nella storia e nei nostri cuori a custodia della pace».

Nel 2010, dopo qualche polemica, anche il nome di Nino Bixio è scomparso dalla toponomastica brontese: la stretta stradina di fronte al convento è stata chiamata Via Libertà (“Nino Bixio non merita una via”, ha dichiarato il sindaco). In modo analogo si sono comportati anche altri Comuni tra i quali vogliamo citare Rometta Marea che, nel 2018, ha ridenominato via Bixio in via Vittime dell’eccidio di Bronte.

Nessun onore o ricordo invece Bronte ha voluto riconoscere a quel vecchio patriota di educazione liberale, conosciuto in tutta la Sicilia, sostenitore e capo del partito dei «comunisti» (fautori degli interessi del Comune, in contrapposizione con il par­tito dei «ducali», sostenitori degli interessi della Ducea) fatto fucilare da Bixio per dare un esempio e per soddisfazione della na­zio­ne britannica. Bronte si è sempre dimen­ticato di questo liberale che ha difeso sino alla morte gli interessi del Comune e dei brontesi.

Vedi in merito anche Chi dici Nicò, una canzone dedicata all’avv. Nicolò Lombardo da un cantautore siracusano

 

Fonte:.bronteinsieme.it/