di Antonino Gulisano
Giosuè Carducci nasce il 27 luglio 1835 a Valdicastello, vicino Lucca, e fino al 1839 vive immerso nel meraviglioso paesaggio toscano della Maremma. Nella sua esperienza personale, questi anni in Toscana rivestono un ruolo fondamentale per la formazione della sua sensibilità: l’immagine di una natura incontaminata, energica e vitale accompagnerà tutta la sua produzione poetica.
Dopo i primi studi, nel 1853 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa dove uscirà, laureato in Filologia, nel 1856.
Passando da Pisa a Firenze, partecipa agli incontri della società “Amici Pedanti” che si batteva per un immediato ritorno al classicismo della letteratura contro la modernità e le nuove idee del Romanticismo, un dibattito molto sentito in Italia all’epoca in quanto ogni intellettuale e letterato del tempo si schierava – e lottava – a favore o contro il classicismo in contrasto con le idee romantiche. Sua la frase: «Colui che potendo esprimere un concetto in dieci parole ne usa dodici, io lo ritengo capace delle peggiori azioni.»
Affiliato alla Massoneria del Grande Oriente d’Italia sin dal 1862, nel 1866 fu tra i fondatori della Loggia bolognese “Felsinea”, e ne divenne il segretario, ma assunse «ben presto un orientamento contrario al rito scozzese dell’Ordine». Dopo aver scritto un opuscolo di protesta, per conto della Loggia “Felsinea”, nel 1867 la loggia fu sciolta dal Gran maestro Lodovico Frapolli e Carducci fu espulso dalla Massoneria. «E il Carducci non se ne occupò mai più, anche se più tardi reiscritto ed accarezzato da uomini di gran nome come Adriano Lemmi ed Ernesto Nathan». Con il nuovo Gran maestro Adriano Lemmi Carducci fu affiliato il 20 aprile 1886 alla Loggia “Propaganda massonica” di Roma, dove raggiunse il 33° e massimo grado del Rito scozzese antico ed accettato.
Negli anni del trasformismo il poeta conquistò un posto centrale nella struttura ideologica e culturale dell’Italia umbertina, giungendo ad abbracciare le idee politiche di Francesco Crispi. Il 30 settembre 1894 pronunciò il discorso per l’inaugurazione del nuovo Palazzo degli Offici (ora Palazzo Pubblico) nella Repubblica di San Marino.
La sua poesia, intanto, sotto l’influsso delle letterature straniere e in particolare di quella francese e tedesca, divenne sempre più improntata di laicismo, mentre le sue idee politiche andavano orientandosi in senso repubblicano. Si dedicò seriamente allo studio del tedesco con l’aiuto di un maestro, tanto che in breve tempo riuscì a padroneggiare i poeti più difficili e amati, quali Klopstock, Goethe, Schiller, Uhland, Von Platen, Heine.
Arrivano anni duri, però, per il giovane Carducci. Suo fratello muore suicida e presto anche il padre passa a miglior vita lasciando Carducci responsabile per la madre e per l’altro fratello. Sono comunque anni di intensa attività editoriale, non si dà per vinto, cura varie edizioni di classici italiani e, negli stessi anni, sposa Elvira Menicucci da cui ebbe quattro figli.
Se questo fu l’anno della rabbia, il successivo fu quello del dolore. Il 3 febbraio 1870 si spense la madre, cui era legatissimo e per cui nutriva una sorta di venerazione. Il dolore fu forte, ma non poté eguagliare quello della perdita del figlio prediletto Dante, nato il 21 giugno 1867 e morto il 9 novembre 1870. Dante cresceva forte e sano, e il padre lo amava smisuratamente. La morte fu improvvisa e imprevedibile. Giosuè Carducci, distrutto, si lasciò per qualche tempo andare allo scoramento più totale: «Non voglio far più nulla. Voglio inabissarmi, annichilirmi», scrisse in una lettera del 23 dicembre. Al figlio Dante dedicò le celeberrime quattro quartine di “Pianto antico”. Una poesia che mi ha affascinato fin dal Liceo. Il pianto del padre è antico come il dolore che gli uomini di tutti i tempi hanno provato di fronte alla morte. Emerge dal passato anche la figura del melograno, antico simbolo di fertilità, di rinascita e resurrezione.
Il gioco dei termini usati nella poesia esprimono il netto contrasto tra la vita (“luce”, “calor”) e la morte (“pianta… inaridita”, “terra fredda”, “terra negra”) tanto più dolorosa quando coglie una “pargoletta mano” non più capace di trattenere nelle sue mani la vita.
Lo stesso ritmo infine della poesia sembra suggerire quelle nenie che si recitano ai bambini per farli addormentare ma qui non c’è gioco fantastico, vi è tristezza, rassegnazione profonda: questa è una nenia per un sonno di morte.
Non c’è quindi più furia politica in Carducci, non c’è rabbia né critica sociale. Le “Odi” attaccano il cattolicesimo, esaltano l’impero romano ed esprimono la visione politica carducciana, ma essa perde la carica polemica precedente. Le odi si fissano su un particolare attuale, l’Adda che scorre, il sole che illumina il campanile della Basilica di San Petronio.
Nella primavera del 1886, al Carducci fu nuovamente chiesto di concorrere per un seggio alla Camera dei deputati. Del tutto restio ad accettare, e lontano anni luce dal guazzabuglio della politica militante, si trovò tuttavia stavolta in una situazione diversa. Era la sua gente a chiederglielo, erano i maremmani. Vinsero la sua resistenza le parole contenute nella lettera che Agostino Bertani, suo grande amico, scrisse poco prima di morire, esortando la nazione a reagire di fronte a una classe dirigente corrotta e traditrice delle conquiste risorgimentali.
Intanto il suo atteggiamento giacobino si affievolisce gradualmente e nel 1876 viene candidato come democratico alle elezioni parlamentari. Pian piano comincia ad accettare il ruolo dei monarchi Savoia come garanti dell’Unità italiana e, dopo l’incontro con la regina Margherita a Bologna, nel novembre del 1878, fu tanto grande per lui il fascino esercitato dalla donna che scrisse un’ode “Alla regina d’Italia” avviandosi così, definitivamente, verso gli ideali monarchici.
Tenne così qualche giorno dopo, al Teatro Nuovo di Pisa, un discorso feroce nei confronti del settimo governo Depretis. Neanche questa volta tuttavia, il Carducci fu eletto, e salvi furono così i suoi studi.
4 dicembre 1890 venne nominato senatore e negli anni del suo mandato sostenne la politica di Crispi, che attuava un governo di stampo conservatore. Allo statista siciliano si sentiva da qualche anno particolarmente legato, e l’onore ricevuto non poté che accrescere il vincolo. La nomina a senatore rese le visite carducciane nella città eterna ancora più frequenti. Nell’Urbe riceveva sempre ospitalità presso qualche amico; poteva trattarsi del Chiarini, da anni insegnante in un liceo capitolino, di Ugo Brilli o di Edoardo Alvisi, il bibliotecario della Casanatense, assiduamente frequentata dal Carducci.
Carducci fu oggetto anche di critiche molto aspre. Fra le molte, è da segnalare quella di Mario Rapisardi, repubblicano, che probabilmente non perdonò a Carducci il “tradimento” degli ideali giovanili con l’adesione alla monarchia (si veda “Lettera aperta a Benedetto Croce”, ed. G. Pedone Lauriel, Palermo 1915).
Non solo: Giosuè Carducci diventa il vate dell’Italia umbertina. Gli ultimi anni continuano ad essere caratterizzati da una febbrile attività editoriale e poetica consacrando la sua posizione di poeta ufficiale dell’Italia monarchica. Vince il premio Nobel per la letteratura nel 1904 e il Certificato gli conferito nel 1906. A pochissimi anni da questo meritato successo muore a Bologna, per una broncopolmonite, il 16 febbraio del 1907.
In Italia, nonostante la diffusione di alcune delle idee romantiche circolanti in Europa nel corso dell’Ottocento, Carducci ripropone un classicismo vitale ed energico che viene ad imporsi nella cultura italiana come un modello elevato di comunicazione poetica che si mescola con un grande bisogno di realismo. La poesia deve, attraverso un linguaggio e tematiche riprese dal mondo greco e latino, raccontare la realtà contemporanea senza introdurre elementi surreali o inquietanti come quelli del romanticismo.