Lo scopo di questo articolo non è certo quello di elencare le battaglie e le attività che Gianni Agnelli, o l’Avvocato, come si faceva spesso chiamare, ha portato avanti nel corso della sua vita, quanto piuttosto provare a riflettere su quanto il nostro Paese sia stato influenzato, positivamente e non, dalla sua figura e su come essa ancora oggi costituisca oggetto di ammirazione, quasi venerazione per alcuni, anche da parte di un giovane studente di 20 anni che non ha potuto viverlo di persona come il sottoscritto.
Imprenditore, politico, presidente, avvocato (anche se più come formalismo estetico che come professione), uomo di grande classe e raffinatezza, Gianni (all’anagrafe Giovanni) Agnelli nasce a Torino il 12 marzo 1921. I genitori lo chiamano con il nome del suo mitico nonno, il fondatore della Fiat, quella “Fabbrica Italiana Automobili Torino” che lo stesso Gianni porterà ai suoi massimi fulgori dopo gli anni passati come apprendistato, in qualità di vicepresidente, all’ombra di Vittorio Valletta, altra grande figura manageriale che ha saputo guidare l’azienda torinese con sagacia ed eccellenza dopo la scomparsa del fondatore avvenuta nel 1945.
Nominato presidente nel 1966, l’Avvocato conduce l’ azienda nel momento storico peggiore per il capitalismo italiano: gli anni degli “autunni caldi”, il conflitto scioperi-serrate, la guerra fredda, i moti studenteschi del ’68 e un ribollire di tendenze rivoluzionarie mettono in seria difficoltà la gestione dell’azienda e potrebbero costituire la fine anticipata per il discendente della “prima borghesia” italiana di cui nonno Gianni faceva parte nei primi del ‘900. Eppure Agnelli, che ha dalla sua parte un carattere autoritario e comprensivo, tende sempre alla ricomposizione delle parti sociali e alla mediazione, riuscendo a traghettare la Fiat verso acque tutto sommato sicure, e i risultati arrivano già nei primi anni Settanta, coronati dalla nomina nel biennio 1974-76 a presidente di Confindustria.
Ma la carriera dell’Avvocato, si sa, è costellata di momenti come questo, in cui il suo spirito di conciliazione e, si può dire, anche il suo fascino da intellettuale e guida carismatica delle masse alla fine ha sempre la meglio. E così, verso la fine degli anni ’70, la Fiat si trova nel bel mezzo di una terribile tempesta. In Italia imperversa una fortissima crisi, la produttività cala spaventosamente e i tagli all’occupazione sono alle porte. Discorso che vale per tutti e non solo per la Fiat, solo che quest’ultima è un colosso e quando si muove, in questo caso negativamente, mette paura. Per fronteggiare l’emergenza si parla di qualcosa come quattordicimila licenziamenti, un vero e proprio terremoto sociale, se realizzato. Si apre dunque una dura fase di scontro sindacale, forse il più caldo dal dopoguerra, passato alla storia grazie a record assoluti come il famoso sciopero dei 35 giorni. Fulcro della protesta diventano i cancelli dei nevralgici stabilimenti di Mirafiori. La trattativa è in mano completamente alla sinistra, che egemonizza lo scontro, ma a sorpresa il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer promette il sostegno del Pci in caso di occupazione delle fabbriche.
Il braccio di ferro si conclude il 14 ottobre, con la “marcia dei quarantamila” quando, del tutto inaspettatamente, i quadri della Fiat scendono in piazza contro il sindacato (caso unico di tutta la storia legata agli scioperi). La Fiat, sotto pressione, rinuncia ai licenziamenti e mette in cassa integrazione ventitremila dipendenti. Per il sindacato e la sinistra italiana è una sconfitta storica. Per la Fiat è una svolta decisiva. L’azienda torinese è pronta dunque a ripartire di slancio e su nuove basi. Agnelli, affiancato da Cesare Romiti, rilancia la Fiat in campo internazionale e, in pochi anni, la trasforma in una holding con interessi assai differenziati, che non si limitano più al solo settore dell’auto (in cui fra l’altro aveva ormai assorbito anche l’Alfa Romeo e la Ferrari), ma vanno dall’editoria alle assicurazioni. La scelta, al momento, risulta vincente e gli anni ’80 si rivelano fra i più riusciti di tutta la storia aziendale. Agnelli si consolida sempre di più come il re virtuale d’Italia.
Presidente della squadra più vincente d’Italia, la Juventus, nel dopoguerra Agnelli è soprattutto tifoso prima ancora che presidente, e anche quando ufficialmente non è più in carica l’Avvocato non rinuncia a rilasciare dichiarazioni post partita sulla sua “vecchia signora” e a epitetare con nomi di artisti, politici e non solo i suoi calciatori: Omar Sivori è “il Vizio”; Gentile è soprannominato “Gheddafi” per la somiglianza con il dittatore; Zbiniew Boniek è “il bello di notte” perchè eccelle sempre nelle partite di coppa, che si giocano di sera; non mancano anche i commenti, rivolti verso i suoi allenatori, come Marcello Lippi, che secondo Agnelli è il “più bel prodotto di Viareggio dopo Stefania Sandrelli”, o i suoi più talentuosi giocatori, come Zidane, che per l’Avvocato è “più bello che utile”; e poi si sono loro, gli artisti del pallone, Roberto “Raffaello” Baggio, il “Michelangelo della Cappella Sistina” Vialli, fino ad arrivare al “Pinturicchio” Del Piero, che quando calcia disegna pennellate imparabili.
Leadership, carisma, spirito imprenditoriale, ma anche classe, arte ed eleganza: i suoi vezzi, i suoi nobili tic e il suo modo di fare vengono assunti come modelli di stile, come garanzia di raffinatezza: a cominciare dal celebre orologio sopra il polsino, fino all’imitatissima erre moscia e alle scarpe scamosciate, Gianni Agnelli non può essere stato per l’Italia un semplice imprenditore di una fabbrica di automobili.
La storia di Agnelli passa anche attraverso grandi lutti, come la morte per un tumore al cervello del nipote Giovannino, da tutti considerato il successore dell’Avvocato alla guida della Fiat, e soprattutto il suicidio del figlio Edoardo, secondo molti vittima di una crisi esistenziale dovuta agli onori, ma soprattutto agli oneri, di essere un Agnelli anche lui. Presente quando la Juve dell’allora presidente Boniperti vinceva una coppa Campioni all’Heysel nel 1985 tra la morte e la disperazione dei tifosi presenti quel giorno, Gianni Agnelli ha saputo negli anni convivere anche con un altro suo lato, più oscuro e nascosto e per questo affascinante, quello della malinconia, della solitudine e del dolore di lavoratore, padre e uomo.
Nominato senatore a vita nel 1991 da Francesco Cossiga, Gianni Agnelli si spegne nella sua Torino il 24 gennaio 2003, vinto da una lunga malattia. La notizia della morte dell’Avvocato suscitò nel Paese cordoglio ma anche sgomento: l’Italia aveva appena perso un personaggio storico indiscusso del Novecento, ma soprattutto un grande uomo, che era riuscito a dare lavoro a migliaia di famiglie italiane.