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10 luglio 1943, lo sbarco degli Alleata in Sicilia

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Nel giorno prestabilito per l’invasione, una imponente flotta di oltre 2000 navi da trasporto di tutti i tipi, protette da più di duecento navi guerra, si presentò al largo delle coste siciliane e, sostanzialmente incontrastata, diede avvio all’operazione “Husky”. La ricostruzione puntuale e documentata dei fatti da parte di chi ne fu testimone diretto. Stralci dal libro di Augusto Lucchese “Enna 1943, ricordi di guerra”

di Augusto Lucchese

Per comprendere meglio gli avvenimenti collegati alla invasione Alleata della Sicilia, avviata nella notte fra il 9 e 10 luglio 1943,  non è fuor di luogo proporre un breve  excursus riassuntivo della situazione militare esistente nell’Isola a tale data.

Va subito detto che i fatti smentirono clamorosamente l’affrettata affermazione del Gen.le Eisenhower e del Gen.le Alexander (il primo comandante delle forze alleate in Mediterraneo, il secondo responsabile diretto della operazione “HUSKY”) i quali avevano spavaldamente annunciato che la Sicilia “in dieci giorni al massimo” sarebbe caduta in mani alleate e sarebbe stata occupata dalle forze d’invasione. Pur a fronte della palese inferiorità qualitativa delle forze italiane e della carenza di efficace cooperazione fra i Comandi italiani e tedeschi, di giorni ne occorsero ben 38. Non fu possibile, tuttavia, fronteggiare tempestivamente ed efficacemente i cruciali momenti dell’iniziale attacco alleato alla Sicilia.

Nella zona di Gela, ove erano sbarcati in massa i reparti della VII Armata americana comandata dal Gen.le George Patton, non servirono allo scopo gli eroici contrattacchi del 10 e 11 luglio della Divisione “Livorno” (Gen.le  D. Chirieleison) appoggiata, sebbene con ritardo di circa 24 ore, dalla Divisione Corazzata “Goering” tedesca. Le Divisioni “Assietta (Gen. E. Papini) e “Aosta” (Gen. G. Romano),  stanziate nella  zona  occidentale dell’Isola (Trapani – Palermo), non ebbero neppure l’opportunità di intervenire.

Nel siracusano la Divisione “Napoli” (Gen. G.C. Gotti Porcinari) fu  alquanto facilmente sopraffatta dai reparti della VIII Armata britannica del Gen.le Montgomery sbarcati nella Zona di Pachino – Marzamemi – Avola. Siracusa e Augusta furono conquistate facilmente.

Solo la strenua battaglia di Primosole, alle porte di Catania, essenzialmente sostenuta dai “parà” tedeschi, determinò il momentaneo arresto dell’avanzata della VIII Armata britannica del Gen.le Montgomery, lungo il versante orientale dell’Isola.

Peraltro, il grosso dei reparti tedeschi, non appena delineatosi lo strapotere delle forze alleate, aveva ricevuto l’ordine di eseguire una manovra di sganciamento, senza impegnarsi in battaglie frontali. Ai reparti di retroguardia fu affidato il compito di ritardare al massimo l’avanzata nemica.

Iniziò così il loro arretramento verso Messina. La manovra, essenzialmente, aveva lo scopo di evitare un eventuale accerchiamento e la conseguente sicura distruzione dei preziosi mezzi corazzati in dotazione.

Furono gli accaniti combattimenti di Regalbuto e Troina, a parte la caparbia resistenza  dei  reparti germanici di  retroguardia (anche lungo la costa tirrenica di Brolo e Patti, ove gli americani avevano difficoltosamente effettuato degli sbarchi aggiranti) a permettere che il grosso delle forze dell’Asse si portasse verso le zone dello Stretto dalle quali, poi, sarebbe stato possibile effettuare il graduale trasferimento sulla costa calabrese. Ciò avvenne con regolarità e con poche perdite. La “operazione Lerghang” sarebbe passata alla storia come un successo tedesco, come una “Dunkerque siciliana”.

La Sicilia cadde sotto l’assoluto controllo degli Alleati e, all’uopo, fu istituito  il “Governo Militare Alleato per i Territori Occupati” (A.M.G.O.T.). S’evidenziarono ben presto gli effetti della sconfitta subita dalle forze dell’Asse che, contrariamente a quanto spavaldamente affermato da Mussolini, nel discorso del 24 giugno 1943 (“….bisogna che, non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del bagnasciuga”), peraltro errando maldestramente sul termine “bagnasciuga” che, risaputamente, ha un significato del tutto diverso da quello di “spiaggia” o di “battigia”, cui forse intendeva riferirsi.

L’Isola venne praticamente divisa in due zone d’influenza. Quella sotto controllo delle “benestanti” divisioni americane (che si estendeva un po’ a tutto il centro – ovest della Sicilia, compresa buona parte della Provincia di Enna) fu in un certo qual modo baciata dalla fortuna. Gli “Yankee”, tranne qualche indegno episodio di cui le cronache hanno parlato poco e niente (eccidi di Biscari, Piano Stella e Comiso) tutto sommato si comportarono bene con la popolazione civile, mostrandosi sostanzialmente comprensivi e  generosi.

La stessa cosa non può dirsi per quegli altri territori  (prevalentemente della Sicilia Orientale) presi in consegna dalle truci soldatesche inglesi e del Commonwealt. Esse, in barba alla millantata qualifica di “liberatori” (o più veritieramente di “co-liberatori” stante che da soli, senza Roosewelt con il suo immenso potenziale industriale bellico e senza Stalin, con il suo il suo “generale inverno” e le sue “Katiuscia”, non sarebbero stati in grado di “liberare” un bel niente). Confermarono e avvalorarono, invece, la pregressa meritata qualifica di “colonialisti”, dimostrando d’essere pressoché indifferenti, di massima, nei riguardi del basilare rispetto delle popolazioni sottomesse.

Solo per carità di Patria, infine, è meglio non dilungarsi a parlare del torbido comportamento dei raccogliticci reparti (in gran parte senegalesi e marocchini) della cosiddetta “Francia Libera” del Gen.le Giraud, responsabili di saccheggi e di ignobili violenze su donne e bambini.

In ogni caso, fra paure, sofferenze e privazioni, il  ciclone  della tragedia bellica s’era allontanato dalla Sicilia.

 

Testimone diretto

 

Quello che avrebbe potuto essere un qualsiasi mattino di quel luglio di guerra, divenne, invece, apportatore di gravi notizie. A conferma delle avvisaglie che negli ultimi giorni non avevano fatto presagire nulla di buono, scoccò l’ “ora X” dell’invasione della Sicilia, frutto delle pesanti sconfitte dell’Asse in Libia e in Tunisia e della occupazione da parte degli anglo-americani dell’intiera fascia mediterranea dell’Africa, dal Canale di Suez al Marocco francese.

Considerato che mio padre, contrariamente alle sue abitudini, non aveva ancora acceso la radio per ascoltare le prime notizie della giornata, m’ero premurato di farlo io, appena in tempo per captare il cinguettio del familiare “usignolo” che annunciava il “segnale orario” delle ore 8.

Quando la nota voce dello “speaker” diede inizio al “giornale radio”, non potei non avvertire una strana sensazione. Il tono del suo dire, nello scandire le parole, era insolitamente teso, quasi accorato.

Diede subito lettura di un annuncio che, immediatamente, destò ansia e preoccupazione: “…da notizie appena pervenute, apprendiamo che stanotte, attorno alle ore tre, consistenti forze anglo-americane sono sbarcate in Sicilia. Precedute da intensi bombardamenti navali ed aerei, sembra abbiano preso terra lungo il litorale sud dell’Isola, tra Scoglitti, Gela e Licata, oltre che lungo la costa orientale, tra Pachino e Avola. Le nostre truppe s’oppongono  validamente all’urto delle forze avversarie, ma le frammentarie notizie sino ad ora giunte, non permettono di tracciare un esauriente quadro della  situazione.  Maggiori particolari verranno forniti con il bollettino del Comando Supremo delle FF.AA. che, come di consueto, sarà diramato alle ore 13 di oggi”.

Istintivamente mi accostai ancor più alla radio, come se la maggiore vicinanza potesse permettere d’ascoltare meglio gli eventuali ulteriori dettagli.

La notizia appena diffusa non poteva non determinare apprensione e costernazione e  la tensione s’aggravò ancor più quando, dopo pochi minuti, la trasmissione s’interruppe, come se si fosse persa nel nulla. Era saltato il collegamento con il ripetitore EIAR di Caltanissetta e quindi con la rete nazionale. Ma come suole dirsi “non c’è due senza tre” e, a peggiorare le cose, venne a mancare anche la corrente elettrica.

La notizia, ovviamente, era foriera di gravi e imprevedibili risvolti. Oltremodo emozionato mi precipitai nella stanza accanto – ove si trovavano i miei genitori – e concitatamente riferii quanto appena ascoltato dalla radio. Ebbi, però, la sensazione che non avessero dato soverchia importanza alla mia accalorata segnalazione. Mio padre, alla fine, non senza manifestare una qual certa incredulità, prese la decisione di scendere in strada per attingere eventuali notizie dai vicini o da qualche mattiniero passante.

Da parte mia riflettei che l’unica cosa da fare fosse quella di cercare di rintracciare il Sergente Maggiore Armando Papadia, un mio personale amico  che, facendo parte del Reparto “Genio Trasmissioni”, allocato nel vicino edificio “Perna”, avrebbe potuto essere in grado, forse, di fornirmi più precisi ragguagli. Mi fu detto che, purtroppo, non era ancora rientrato dal servizio notturno, ma nessuno dei commilitoni interpellati sembrava propenso a soddisfare la richiesta di conferma della notizia appena annunciata dalla radio. Non fu difficile rendersi conto, tuttavia, che un po’ tutti erano in preda ad una palese agitazione. Li pregai, comunque, di recapitare un messaggio ad Armando, sperando che si facesse vivo al più presto.

Sembrava inverosimile, in ogni caso, che non si riuscisse ad ottenere esaurienti informazioni su un fatto tanto importante, specie considerando che solo un centinaio di chilometri ci separava dalla zona in cui, stando alla notizia poco prima diffusa dalla radio, stava accadendo qualcosa di grave e di determinante per il nostro immediato futuro.

 

Lo sbarco

 

La minuziosa ricostruzione, in chiave cronologica, delle operazioni d’attacco alla Sicilia (operazione “HUSKY”) ci  ha fatto conoscere, pur se solo a posteriori, la realtà operativa  in cui, nella notte fra il 9 e il  10 luglio 1943,  vennero a trovarsi le forze italo tedesche cui era affidata la difesa dell’Isola, con particolare riferimento ai settori costieri interessati dallo sbarco.

L’assalto delle preponderanti forze anglo americane, sviluppatosi nel corso di quella notte d’apocalisse e nel giorno seguente, era finalizzato ad avere ragione, al più presto possibile, del debole “apparato  difensivo della Sicilia“. Tutto si svolse con una sequenza travolgente e ineluttabile, pur se i tempi e le  difficoltà risulteranno, alla fine, ben superiori rispetto alle ottimistiche previsioni del Comando di Algeri.

È da dire che, pur se parecchie avvisaglie avevano fatto intuire che l’attacco fosse ormai imminente, quasi tutti i reparti costieri non erano stati allertati a tempo e, quindi, finirono con l’essere colti di sorpresa e non poterono rintuzzare validamente l’attacco.

Appena pochi giorni prima, nel corso di un incontro svoltosi ad Enna, il 28 giugno, presso il Comando della 6° Armata italiana, la situazione era stata vagliata oltre che dal Gen.le Alfredo Guzzoni (che da poche settimane aveva  sostituito il  Gen.le Mario Roatta),  dal  Maresciallo  Albert  Kesserling  (comandante  in  capo delle  Forze  tedesche  in  Italia)  e dal Gen.le Frido Von Serger und Etterlin che ricopriva l’incarico di ufficiale di collegamento con il Comando Supremo Tedesco. (Il Gen.le Frido Von Serger und Etterlin sarà poi il “benefattore” che, con grande senso di responsabilità e di propria iniziativa, impartirà le disposizioni per porre in salvo le inestimabili opere d’arte dell’Abbazia di Montecassino. Alla fine della guerra si darà alla vita monastica prendendo i voti francescani).

Il Gen.le Guzzoni, nella qualità di comandante delle forze italo tedesche in Sicilia, fece presente d’avere avuto appena la possibilità di prendere visione dei “piani di difesa” predisposti dal suo predecessore Gen.le Roatta che, a suo dire, erano “disperatamente insufficienti” e sostanzialmente inadeguati alla bisogna.

Nel prestabilito giorno dell’invasione, una imponente flotta di oltre 2000 navi da trasporto di tutti i tipi, protette da più di duecento navi guerra – fra cui alcune navi da battaglia e parecchi incrociatori pesanti – si presentò al largo delle coste siciliane e, sostanzialmente incontrastata, diede avvio all’operazione “Husky”.

Un immenso brulicare di navi “Liberty”, di mezzi da sbarco, di zatteroni traghetto, prese a riversare a terra gli effettivi di due Armate, la VIII inglese, del Gen.le Montgomery, e la VII americana del Gen.le Patton, in uno a tonnellate e tonnellate di materiali, di automezzi e mezzi corazzati d’ogni tipo.

Le operazioni di sbarco erano state precedute da un massiccio lancio di paracadutisti e dall’impiego di due gruppi aviotrasportati (la 82° divisione  statunitense del Gen. Ridgway – lo stesso che negli anni ’50 assunse, in sostituzione del Gen.le Mac Arthur, il comando delle Forze ONU in Corea  e la 1° Brigata inglese) che, a causa dell’insufficiente conoscenza dei luoghi e per i macroscopici errori di rotta dei piloti, ebbero a subire ingenti perdite, al limite di un vero e proprio disastro.  Centinaia di “alianti”  “Waco” e “Horsa” (questi ultimi trasportanti anche automezzi e armi pesanti) si schiantarono su sconosciuti rilievi delle zone prescelte per l’atterraggio o sui robusti muretti dei molti insediamenti agricoli ivi esistenti. Parecchi altri finirono addirittura ben lontani, al largo della costa e furono inghiottiti dai flutti del mare. Le perdite in uomini e mezzi furono tanto rilevanti da indurre il Comando Alleato a sospendere ulteriori azioni del genere.

La forza di contrasto a disposizione degli italiani era essenzialmente basata sulle divisioni mobili “Livorno e “Napoli, in aggiunta a “nove gruppi costieri autonomi” la cui singola consistenza era pressoché quella di un Reggimento.

I tedeschi potevano contare su alcuni “Gruppi mobili da combattimento”, oltre che sulle divisioni corazzate “Sizilien” e “Goering , purtroppo dislocate in zone parecchio lontane.

Senza entrare nel merito dell’esame qualitativo e quantitativo delle forze contrapposte e senza soffermarsi in chiave critica sul notevole divario tecnico e logistico esistente fra i reparti italiani e quelli tedeschi, è doveroso, in ogni caso, sottolineare il  magnifico  ardimento  con cui  taluni raggruppamenti divisionali e costieri italiani si sacrificarono nel sovrumano tentativo di ricacciare a mare gli Anglo Americani.

Il primo tentativo di contrattacco venne operato dal Gruppo Mobile “E” (appartenente al 34° Rgt. della Divisione “Livorno”) formato da due colonne rispettivamente provenienti da Butera e da Niscemi.  Il “gruppo” comprendeva, oltre  ad  alcuni  reparti  di  Bersaglieri,  di  Fanteria  e  di Artiglieria leggera, una  quarantina di carri “Renault” (preda bellica), di “Fiat T3” (antiquati e poco affidabili) e “Ansaldo L3” (solamente dotati di due mitragliatrici da 8 mm.).  La pur debole puntata controffensiva fece si che un centinaio di soldati e nove di quei malandati pseudo carri armati (al comando del Cap. Giuseppe Ranieri) riuscissero a penetrare (ore 10,30 circa dell’ 11 luglio) nell’abitato di Gela – già nella notte occupata dalle forze da sbarco americane – addentrandosi sin nella piazza principale.

Si trattò solo del coraggioso slancio di un pugno d’uomini e non di una vera e propria azione controffensiva coordinata e sufficientemente sostenuta da forze di rincalzo. È provato, tuttavia, che tale inaspettata azione mise in crisi l’ancor debole schieramento nemico impegolato nelle operazioni di sbarco.

Dalla minuziosa ricostruzione degli avvenimenti, s’è potuto accertare, infatti, che il Comandante della VII Armata Americana, il tronfio texano Gen.le George Patton, preoccupato che quelle “pulci” potessero essere l’avanguardia di chissà quale forza di reazione, aveva ritenuto opportuno diramare urgenti ordini per l’eventualità che si palesasse la necessità del reimbarco dei reparti e dello sgombero della testa di ponte.

I bersaglieri e i fanti del citato Gruppo Mobile “E”, pur nella consapevolezza dell’impari lotta, portarono coraggiosamente avanti il contrattacco  seguendo le  direttrici di  “Capo Soprano” (la colonna proveniente da Butera)  e della  foce del fiume Dirillo (la colonna proveniente da Niscemi), riuscendo a fare arretrare le avanguardie della 1a Divisione statunitense già proiettate verso la vasta piana di Gela .

Un secondo contrattacco, condotto dai reparti della Divisione “Livorno” (Gen.le Chirieleison) vide anche l’apporto, purtroppo con circa 12 ore di ritardo, di alcuni reparti della Divisione Corazzata tedesca “H. Goering”  (Gen.le Conrath) che, provenienti da Caltagirone, s’erano concentrati nella zona dell’aeroporto militare di Ponte Olivo, a circa otto chilometri da Gela.

Lo sforzo controffensivo, a prescindere dal ritardo di cui sopra e pur in mancanza di un adeguato appoggio aereo e di una idonea preparazione di artiglieria, portò nuovamente i reparti attaccanti a poca distanza dall’abitato di Gela, sin nelle vicinanze di “casa Aliotta” e del passaggio a livello della ferrovia.

Una delle cause determinanti dell’insuccesso della seconda ondata controffensiva, sebbene portata avanti con valoroso slancio, fu il micidiale intervento delle  artiglierie navali che, setacciando l’intera pianura gelese, sino a Ponte Olivo ed al bivio per Niscemi, decimarono le colonne avanzanti e distrussero un buon numero di carri “Tiger” tedeschi.

È ampiamente documentato che, dalle ore 9 alle ore 18 dell’11 luglio, i grossi calibri e i cannoni da “152” degli incrociatori “Boise” e “Savannah” e del caccia “Glennon”, spararono ben 3494 colpi, di cui oltre 500 giunsero a segno sui reparti della “Livorno” e della “Goering” mentre erano in pieno slancio offensivo.

Dopo due giorni di sanguinosa lotta, ogni azione di contrattacco s’esaurì e  la Divisione “Livorno” cessò praticamente d’esistere quale unità combattente.   Aveva perso ben 7414 uomini, fra cui molti ufficiali, su un organico di 11.400, oltre alla quasi totalità della dotazione di mezzi motorizzati e d’armamento pesante.

Tutto si svolse proprio a ridosso di quelle spiagge che, a detta dell’Alto Comando di Roma, non avrebbero potuto essere “impunemente superate”.  Non va dimenticato, a tal proposito, che il livello qualificante dell’Alto Comando romano dell’epoca era tutt’alto che “alto”  rispetto a “capacità” ed “efficienza”. Nel suo ambito seguitava ad aleggiare la torva immagine del grande “maestro d’inettitudine” che lo aveva diretto per circa 20 anni, l’insigne Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio.

Quell’Alto Comando avrebbe potuto essere inserito benissimo al primo posto di una apposita classifica d’impreparazione e di lassismo. Per attribuirgli tale primato sarebbe bastato mettere in evidenza la palese congenita incapacità nel fronteggiare a tempo debito e adeguatamente gli avvenimenti bellici del periodo di che trattasi.